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L’Italia sognava di cavarsela con un colpo di bacchetta magica: infilare il ponte sullo Stretto tra le spese militari, come se le onde dello Ionio fossero il nuovo fronte orientale della Nato. Alla Casa Bianca però hanno fiutato l’imbroglio e, con la delicatezza di un bulldozer, hanno spiegato che la “contabilità creativa” non è prevista dai manuali di guerra. Dunque il miracolo di architettura tanto amato dal ministro dei selfie non potrà essere spacciato per arma di difesa collettiva.
E qui si misura il peso della tanto decantata “amicizia personale” con l’inquilino arancione della Casa Bianca. Salvini e Meloni lo hanno coccolato, venerato, citato come un santo patrono della politica sovranista. Ma al momento di chiedere sconti sul registro di cassa della Nato, Donald il magnanimo si è trasformato in Donald il ragioniere: niente trucchi, signori, qui si paga sull’unghia e con valuta sonante.
L’idea che un’opera infrastrutturale possa valere come portaerei da ormeggiare nello Stretto la dice lunga sul grado di disperazione politica. Eppure, nella narrazione nazionale, sarebbe stato un colpo da maestro: il ponte come simbolo di unità, sicurezza e difesa. Peccato che a Bruxelles e a Washington abbiano una concezione più noiosa della guerra: carri armati, missili e soldati.
Così, mentre Roma si arrovella su dove scovare miliardi che non ci sono, l’idillio con Trump si sgretola come calcestruzzo mal miscelato. L’uomo che prometteva mari e monti ai suoi sodali europei ora pretende solo contanti, e non intende riconoscere nel cemento armato un nuovo capitolo dell’arte bellica.
Un tradimento doloroso per chi sperava di far quadrare i conti con una pacca sulla spalla. L’alleanza di ferro tra populismi sembra ridursi a un’alleanza di ghisa arrugginita: robusta nei proclami, inutile al momento del pagamento alla cassa. Altro che amici di Trump, qui restano solo i sospiri. E neanche quelli contabilizzabili.