82 contratti nazionali collettivi scaduti fino a oggi, che interessano più di 3 milioni di lavoratori, settori metalmeccanico e telecomunicazioni ma non solo. Poi ci sono i contratti del pubblico, comparti sanità e funzioni centrali, rinnovati per gli anni 2022-2024 ma senza la firma di Cgil e Uil, perché giudicati insufficienti per recuperare il potere d’acquisto e in termini di tutele.

E ancora, i precari, i part time, i liberi professionisti, le partite Iva, quelli al nero. Un esercito di lavoratori, oltre 6 milioni, che si è impoverito negli ultimi anni anche a causa dell’inflazione e che oggi non sa come far fronte alle spese quotidiane.

Tagli, tagli, tagli

A loro, a tutti loro, la legge di bilancio 2025 di questo governo non dà alcuna risposta. Anzi: taglia sulla spesa sociale e non investe davvero su scuola, sanità e innovazione, non fa niente per ridare fiato a salari e pensioni e aumentare il potere d’acquisto, il vero motore della domanda interna.

Per questo la Cgil e la cordata di associazioni della Via Maestra vogliono scrivere un’altra agenda sociale e sabato 25 ottobre scendono in piazza a Roma per la manifestazione nazionale “Democrazia al lavoro”: per aumentare salari e pensioni, dire no al riarmo, investire su sanità e scuola, dire no alla precarietà, per una vera riforma fiscale.

Primo: rinnovare tutti i contratti

“Sui salari chiediamo di rinnovare tutti i contratti collettivi nazionali pubblici e privati per aumentare il potere d’acquisto – spiega Nicola Marongiu, responsabile area Contrattazione, politiche industriali e del lavoro della Cgil –. Rivendichiamo anche la detassazione degli incrementi contrattuali e la penalizzazione, ovvero l’esclusione dagli incentivi, per i contratti non rinnovati. Naturalmente devono essere individuati gli strumenti di copertura finanziaria e poiché il datore di lavoro del pubblico impiego è lo Stato, il governo deve stanziare risorse ben maggiori rispetto a quelle previste per il biennio 22-24 e mettere mano a un serio intervento di natura fiscale, per alleggerire i lavoratori dipendenti e pensionati”.

Anticipazioni e ipotesi

Dalle anticipazioni circolate in questi giorni, nella legge di bilancio ci potrebbe essere la detassazione degli aumenti previsti dai rinnovi dei contratti nazionali: nel privato, una riduzione dell’aliquota Irpef al 10 per cento sugli incrementi retributivi dal 1° gennaio 2026 al 31 dicembre 2028. Altra misura, in caso di mancato rinnovo del contratto dopo 24 mesi dalla naturale scadenza, un adeguamento delle retribuzioni alle variazioni dell’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato) entro il tetto massimo del 5 per cento annuo a partire dal 1 gennaio 2026. Sarebbe una misura positiva che andrebbe nella direzione chiesta dal sindacato.

Aumenti senza tasse

“Quello che proponiamo è l’azzeramento dell’aliquota sugli aumenti che saranno previsti nei rinnovi, in modo che questi si trasferiscano integralmente nel salario del lavoratore” prosegue Marongiu. Se gli aumenti non sono gravati da tasse, infatti, si garantisce che siano trasferiti integralmente alla capacità di spesa dei lavoratori.

“Dall’altro lato pensiamo che si debba rafforzare la contrattazione collettiva di qualità – aggiunge Marongiu –. Bonus e incentivi devono essere dati solo ai soggetti che applicano un contratto collettivo rinnovato, uno strumento di pressione per garantire i rinnovi”.

Nel 2022-2024 l’inflazione cumulata (Ipca) ha segnato un più 16,4 per cento, i salari reali sono calati del 9 per cento (dati Istat), il drenaggio fiscale è stato pari a 25 miliardi di euro. Facendo riferimento al periodo tra il 2021 e il 2024 e alla media di tutte le società, pubbliche e private, è possibile mantenere il potere d’acquisto aumentando il costo del lavoro di circa 4 mila euro l’anno per dipendente. Guardando alle sole società pubbliche, il potere d’acquisto si mantiene aumentando il costo del lavoro di oltre 7 mila euro nelle partecipate dallo Stato.

Salario minimo legale

Altra questione, il salario minimo legale. Mentre la legge delega appena approvata non prevede alcun salario minimo perché il testo originario è stato completamente snaturato e sostituto con una norma sulla contrattazione collettiva, la questione resta aperta: bisognerebbe garantire una soglia salariale minima che tutti i contratti devono rispettare.

“Sarebbe una garanzia per i lavoratori e permetterebbe di portare più in alto la contrattazione e rappresenterebbe un argine contro quella in dumping, piuttosto diffusa – conclude Marongiu –: secondo le stime, si può arrivare a un differenziale anche di 6 mila euro”.

Stesso discorso vale per l’equo compenso, previsto da una norma sostanzialmente inattuata, che riguarda solo una parte dei professionisti e solo i grandi committenti di natura pubblica e privata: andrebbe estesa a tutti i professionisti, anche a quelli che sono esclusi dalla legge.