Pare che il nuovo boom economico del governo Meloni valga quanto un cappuccino e cornetto, sempre che non ci si sieda al tavolino. Dopo mesi di annunci trionfali e promesse patriottiche, l’epocale riforma dell’Irpef si è materializzata in un aumento medio di tre euro al mese. Una cifra così timida che perfino la calcolatrice arrossisce prima di mostrarla.

Allo stesso tempo il fiscal drag – quell’elegante furto che svuota le tasche senza chiedere permesso – ha sottratto ai lavoratori venticinque miliardi in tre anni. È il trucco del drenaggio: sparisce il coniglio, resta il cappello vuoto e dentro ci trovi il tuo stipendio. Il lavoratore ringrazia, il pensionato sospira e il governo benedice. La povertà, dopotutto, ha un suo decoro istituzionale.

Nelle conferenze stampa più veloci che la decenza ricordi si parla di “aiuti al ceto medio”, creatura mitologica che abita ormai solo nei PowerPoint di Palazzo Chigi. Gli autonomi versano la metà, le rendite brindano con lo spritz e chi lavora davvero finanzia la festa. Un brindisi alla Nazione pagato in trattenute. E se qualche missile parte pazienza, anche la guerra fa pil, soprattutto per chi vende la pace a rate.

Eppure c’è chi osa ancora usare parole in via d’estinzione: redistribuzione, giustizia sociale, equità. La Cgil, con la testardaggine dei sopravvissuti al senso comune, chiede un fisco giusto, progressivo, umano. Un pensiero sovversivo, in tempi in cui ogni cittadino sogna un suo personalissimo paradiso fiscale.

Ma forse tre euro al mese possono bastare davvero, se spesi bene. Comprando magari una penna rossa, per cerchiare sul calendario il 25 ottobre e ricordarsi di scendere in piazza a Roma. Perché la democrazia al lavoro, a differenza dei tagli fiscali, non si misura in centesimi, ma in dignità.