Non è più il tuono a spaventare i cieli, ma il ronzio dei droni: insetti metallici con licenza di sterminio, telecomandati da uffici climatizzati dove la guerra è diventata un call center. L’operatore preme un tasto e il mondo esplode altrove. Sudore zero, rischio calcolato, solo la soddisfazione di un ordine evaso con consegna rapida.

Affondano barche che portano pane e cure – come la Flotilla, eresia galleggiante per i sacerdoti dell’assedio – e violano spazi aerei entrando in Polonia come turisti sbronzi, con la stessa grazia di un brindisi che rovescia bicchieri. Ogni sorvolo è un avvertimento: i cieli d’Europa diventano corridoi di guerra e basta un errore di calcolo per trasformare la mappa in un lampo nucleare.

Il drone è il vigliacco perfetto: non ha paura, non manda figli al fronte, non piange i caduti. È l’outsourcing dell’orrore, il cloud del massacro. Non suda, non trema, non ha incubi: uccide con la leggerezza di un aggiornamento software. Si parla di “chirurgia di precisione” mentre le città diventano mattatoi all’aperto. L’etica è stata disinstallata, sostituita da un algoritmo che non conosce esitazioni.

Ma il peggio non è il metallo che scende, è l’abitudine che sale. Ci si abitua a quel ronzio come al frigorifero in cucina, finché una scintilla non farà saltare l’impianto. Perché dietro ogni sorvolo c’è un rischio di collisione diplomatica. Basta un apparecchio fuori rotta, un radar che sbaglia, un bottone premuto da chi vuole alzare la posta e la terza guerra mondiale smette di essere uno scenario da analisti per diventare breaking news.

E non esiste più distanza tra videogame e genocidio, tra controller e giustizia. È la geopolitica ridotta a simulatore di volo, dove basta un passo falso per passare dall’analisi ai funghi atomici. È il futuro che ci ronza sopra la testa. Un futuro che non atterra mai, ma prima o poi, inevitabilmente, si schianterà.