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Un ricercato internazionale propone un pregiudicato per il Nobel per la Pace. Non è satira e c’è poco da ridere. Benjamin Netanyahu, con il tovagliolo sulle ginocchia e Gaza in fiamme, ha annunciato la candidatura di Donald Trump al premio che fu di Mandela. L’uomo che rade al suolo città e civili onora chi ha trasformato la diplomazia in pirotecnica da palcoscenico. Il carnefice si traveste da arbitro, il piromane da pompiere.
Secondo Bibi, Donald starebbe “forgiando la pace”. Una pace imposta, firmata tra autocrati, garantita da droni e venduta come stabilità. Intese opache, bombe come soluzioni, crimini archiviati come dettagli tattici. Il tutto infiocchettato col patriottismo e consegnato al mondo come visione strategica.
Il curriculum del tycoon è un prontuario del disordine. Ha promosso il caos con la stessa disinvoltura con cui distribuisce cappellini da baseball. Ha trattato la scena globale come un’arena personale, regolando i conti a colpi di tweet, imponendo fedeltà più che alleanze, lasciando dietro di sé solo instabilità travestita da iniziativa. Nessuna visione, solo dominio.
Ora Trump e Netanyahu si incoronano a vicenda come illusionisti del potere. Il primo cerca una nuova verginità morale, il secondo una copertura diplomatica. Non puntano alla pace, ma al controllo del racconto. Chi domina le parole plasma il consenso, anestetizza la memoria, riscrive il presente. E intanto la realtà affonda tra le macerie.
Se davvero Oslo dovesse premiarlo, che lo faccia fino in fondo. Cerimonia blindata, ovazione di mercanti d’armi, buffet a base di razzi gourmet e diplomazia alla griglia. E sulla targa, inciso in oro: “A chi ha saputo trasformare la pace in una joint venture”. Dress code: mimetico elegante, ipocrisia obbligatoria.