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Vittima di una banale caduta in bicicletta, nell’agosto 2006 Bruno Trentin viene ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Bolzano. Morirà esattamente un anno dopo, il 23 agosto 2007, stroncato da una polmonite resistente alla terapia antibiotica.
“Già in questi mesi di sofferenza, dopo la caduta dello scorso anno, si è sentita la sua mancanza”, scriveva Bruno Ugolini: “Alludo all’assenza amara di una voce che sapeva guardare con lucidità e con speranza le vicende di un mondo, di un Paese, di una politica che a stento cerca il filo di un futuro incerto. Autonomia, lavoro, libertà. Sono le tre parole care a Bruno Trentin. E tornano in mente ora, mentre tento di ripensare, così come l’ho conosciuta, la vita di un dirigente sindacale, di un dirigente politico, di un leader della sinistra italiana ed europea”.
Ugolini evidenzia che “a molti poteva apparire, di primo acchito, come un aristocratico, un raffinato intellettuale, chiuso nella sua torre d’avorio. Ma era lo stesso uomo che nell’autunno caldo affrontava tempestose assemblee operaie, a volte rischiava di buscare i bulloni in testa. Aveva il gusto del confronto, aspro, non solo con gli avversari politici, con le controparti imprenditoriali o con dirigenti di partito. Sapeva affrontare anche masse di lavoratori agitati da ribellismi corporativi. Perché non li considerava plebaglia pezzente, capace solo di invocare le grazie di un boss o di un moderno principe o di protestare al vento”.
Ugolini così conclude: “Considerava i ‘salariati’ come dei protagonisti, dei ‘produttori’. Così li aveva chiamati nel titolo di un bel libro: Da sfruttati a produttori. Era il senso di una battaglia fatta di unità, di lotte e di conquiste, ma soprattutto intrisa di un concetto a lui molto caro: ‘autonomia’. È la sua prima parola. Autonomia per il sindacato, per la Cgil, per i lavoratori, autonomia per sé”.
C’è, in queste parole, tutto Bruno Trentin. Il partigiano Leone, il segretario della Cgil, l’uomo politico (nel senso più alto del termine), italiano ed europeo. Un rivoluzionario, nella definizione di Pietro Ingrao, cui lo legava un’amicizia antica e profonda, che nessuna divergenza di vedute aveva mai potuto scalfire.
Nato nel 1926 in Francia (dove la famiglia si era trasferita a causa delle persecuzioni fasciste), partigiano e azionista, passato successivamente nelle file comuniste, Trentin entra giovanissimo nell’Ufficio studi della Cgil. Dopo una breve esperienza nella segreteria confederale, Bruno costruisce la sua immagine di leader sindacale di successo con la lunga e autorevole direzione della Fiom, protrattasi dal 1962 al 1977.
Sulla spinta delle lotte studentesche e operaie del biennio 1968-1969, il suo impegno sarà principalmente volto ad affermare l’esperienza del “sindacato dei Consigli” fino alla costituzione nell’ottobre 1972 della Flm, la Federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici.
Dopo essersi dimesso da segretario generale della Fiom, Trentin fa parte della segreteria nazionale della Cgil dove dirige vari settori di lavoro: democrazia economica e industriale, mercato del lavoro, pubblico impiego, studi e ricerche. Promuove in questi anni l’idea del piano di impresa, l’Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil) e più tardi l’Istituto superiore di formazione, la Consulta giuridica.
Il 29 novembre del 1988 viene eletto segretario generale della Confederazione. “Un caldo abbraccio con Antonio Pizzinato - si legge sull’Unità - ha sigillato l’elezione di Bruno Trentin, l’uomo dei consigli di fabbrica, dell’autunno caldo, ma anche l’uomo del ‘piano di impresa’, a segretario generale della Cgil”.
“È cominciata la nuova storia della mia piccola vita”, scrive sul suo diario il 6 dicembre 1988: “Fino a quando non lo so. Qualche tentativo di gettare nuove basi, nuove regole al lavoro e alla ricerca della Cgil”.
Quattro mesi dopo, nell’aprile del 1989, si apre a Chianciano la prima Conferenza di programma della Cgil. Trentin rompe gli indugi e illustra il suo progetto, avanzando l’ipotesi di una nuova Cgil, sindacato dei diritti, della solidarietà e del programma. La Conferenza di Chianciano avvia un processo di autoriforma che, di fatto, proseguirà con la Conferenza di organizzazione di Firenze del novembre 1989 e con il Congresso di Rimini del 1991, per concludersi nel giugno 1994 con la seconda Conferenza programmatica della Confederazione.
Sul piano organizzativo, la novità più rilevante è lo scioglimento delle componenti storiche collegate ai partiti di riferimento della sinistra italiana. In questo modo, la dinamica tra maggioranza e opposizione si sarebbe sviluppata all’interno del sindacato non tanto sulla base della vicinanza a un partito o a una coalizione di governo, quanto in virtù della condivisione o meno di un programma di governo dell’organizzazione.
Sul piano rivendicativo, la Cgil accetta di contribuire alla riforma della contrattazione collettiva e di discutere con gli interlocutori pubblici e privati l’introduzione della politica dei redditi attraverso il sistema della concertazione, individuata come il principale strumento per riportare sotto controllo l’esplosione del debito nazionale; entrambi questi temi saranno introdotti con lo storico accordo siglato nel luglio 1993 con il Governo Ciampi, evento rivelatosi presto decisivo per il risanamento dei conti pubblici e per l’ingresso dell’Italia nell’Unione europea.
“La novità principale della svolta confederale - correttamente scrive Fabrizio Loreto - fu tuttavia un’altra ed ebbe un respiro più ampio e meno congiunturale. Per una nuova solidarietà riscoprire i diritti, ripensare il sindacato: fu questo, infatti, il titolo con cui Trentin presentò a Chianciano la sua proposta. L’idea fondamentale, alla base del nuovo programma confederale, consisteva nel fare del lavoro il principale fattore di cittadinanza, riprendendo e concretizzando il ragionamento formulato oltre quarant’anni prima in sede costituente”.
Loreto sottolinea che “il sindacato, per questo, doveva porsi al servizio di un progetto politico ambizioso, centrato sulla difesa e sullo sviluppo dei diritti dei lavoratori, per l’umanizzazione di un lavoro che fosse sempre più libero e intelligente, attraverso il quale ogni persona avrebbe acquisito in modo stabile e inviolabile lo status di cittadino della Repubblica, con i suoi diritti e i suoi doveri, anche nei luoghi di lavoro. Si trattava, in definitiva, di un manifesto per un’altra sinistra possibile, che recuperava la lezione di Di Vittorio, sostituendo al ‘popolo lavoratore’ la ‘persona umana’, con i suoi diritti elementari inviolabili”.
Aggiunge Loreto: “Nello stesso tempo, come ha notato acutamente Gian Primo Cella, si trattava di una rivisitazione del ‘sindacalismo della classe’, in un’epoca che aveva visto quasi scomparire gli operai, oscurati dai media ed espulsi dall’agenda politica ed economica nazionale. La Cgil si poneva l’obiettivo ambizioso di diventare più autonoma dalla politica (grazie alla fine delle correnti di partito), più democratica (grazie allo sviluppo delle Rsu e a una partecipazione più larga della base alle scelte dei gruppi dirigenti) e più unitaria (recuperando un rapporto positivo di collaborazione con Cisl e Uil, come avrebbero dimostrato gli accordi del 1992-93)”.
Lo studioso così conclude: “Per fare questo occorrevano due elementi decisivi, che ancora una volta Trentin mutuava dagli insegnamenti di Di Vittorio: l’iniziativa di massa, cioè il mantenimento e lo sviluppo di una relazione stabile e aperta con i propri iscritti ma anche con i non sindacalizzati; e il progetto politico, cioè la finalizzazione dell’attività sindacale a favore dell’auto-realizzazione della persona attraverso il lavoro (con il lavoro e nel lavoro). In tale visione, dunque, l’unica variabile indipendente doveva essere la persona umana, con i suoi diritti e le sue libertà, con un lavoro il più possibile di qualità, intelligente e informato, fatto di sapere e conoscenza, il fattore più potente per combattere il declino italiano e far recuperare al sistema economico la produttività perduta nell’epoca della globalizzazione”.
Trentin traghetta la Cgil nel difficile crinale del 1989 e lo fa attraverso la straordinaria formula del “sindacato dei diritti”, in cui il confronto storico non sarà più con la rivoluzione d’ottobre ma con la rivoluzione francese del 1789 e la sua centralità dei diritti. Rompere la separazione fra i diritti, costruire l’alleanza fra chi si batte in fabbrica per la dignità del lavoro e quanti si impegnano fuori per estendere i diritti di scelta e le opportunità delle persone diventa, lo dirà a Chianciano, un compito ineludibile del sindacato.
Nei suoi diari scriveva: “I diritti sono immutabili? No, alcuni sono il frutto di conquiste contingenti di alcuni settori della società che vengono superate dalle trasformazioni reali della società, generalmente ‘in avanti’, perché sostituiti da una nuova generazione di diritti più aderenti alle condizioni imposte dalla trasformazione sociale. La legge sull’orario di lavoro esaltata da Marx è certamente superata, dopo la conquista delle 40 ore. Il diritto non scritto al contratto a tempo indeterminato è certamente superato dal sopraggiungere di nuovi contratti che attendono ancora la sanzione di nuovi diritti, come il diritto alla formazione”.
Proseguiva Trentin: “Ma più in generale le nuove generazioni di diritti sono la proiezione in avanti e la specificazione di diritti antichi – di diritti fondamentali – che non hanno trovato ancora una piena applicazione. Come il diritto all’istruzione che diventa oggi diritto alla formazione lungo tutto l’arco della vita, con la carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, come il diritto alla partecipazione alle decisioni dell’impresa che si precisa il diritto all’informazione e alla consultazione dell’impresa nei casi dei processi di ristrutturazione. La questione dominante è l’attitudine dei diritti universali a costruire solidarietà fra diverse categorie di cittadini, o per lo meno all’universalità delle categorie più deboli superando ogni dimensione corporativa, i diritti che costruiscono per la loro realizzazione una solidarietà fra diversi”.
Per difendere i diritti sanciti in pericolo, e per conquistarne di nuovi, diventa necessario confrontarsi con quelle culture nuove spesso nate fuori, e qualche volta contro, la stessa tradizione della sinistra storica. Il femminismo, l’ambientalismo, i movimenti per l’accoglienza dei migranti. È il passaggio - dirà - dalla conquista della Bastiglia alla conquista delle mille Bastiglie di oggi.
“Di questo abbiamo bisogno”, sosteneva: “Un progetto capace di giustificare e di legittimare le alleanze politiche e di coinvolgere trasversalmente, partendo dal lavoro, tutti i gruppi e le caste della società italiana, un progetto capace di fronteggiare la più drammatica delle fratture sociali nel nostro Paese e nel mondo, quella fra chi è padrone degli strumenti del sapere e chi ne è escluso”. Di questo abbiamo bisogno.