Come presidenti di due associazioni nate e cresciute in culture differenti ci troviamo a scrivere insieme consci della responsabilità di non tacere di fronte alla tragedia che si sta consumando a Gaza e in Cisgiordania. Non intervenire nel momento in cui la diplomazia e anche solo l'umanità stanno naufragando equivale ad un disimpegno morale che ci renderebbe colpevoli.

Mentre l'attenzione dei media internazionali si concentra sulle mosse del presidente statunitense – tra trattative con la Russia e passerelle interne – l'espansione delle colonie israeliane illegali di Gerusalemme Est prosegue indisturbata. In particolare il progetto del corridoio E1, avviato negli anni Novanta e rilanciato più volte come cardine delle politiche di occupazione israeliane sulla città e sull'intera Cisgiordania. A queste decisioni si sommano le operazioni militari nella Striscia e l'uso sistematico della fame e della sete come strumenti di guerra contro la popolazione civile palestinese.

Ogni volta che ci siamo recati in Cisgiordania, l'enorme colonia di Ma'ale Adumim appare più estesa, meglio collegata a Gerusalemme, con infrastrutture sempre più imponenti. In questi anni è stato portato avanti un piano progressivo e sistematico che l'attuale governo israeliano intende completare. Le colonie non sono solo insediamenti abitativi, ma un vero e proprio sistema di controllo fatto di strade e infrastrutture interdette ai palestinesi e riservate agli israeliani. Un regime di apartheid compiuto, che priva un intero popolo di libertà di movimento, di dignità e di futuro. La Cisgiordania tagliata in due dal nuovo insediamento significherebbe l'impossibilità di collegare Betlemme e Ramallah, la cancellazione di uno Stato palestinese con continuità territoriale, l'azzeramento dello status quo di Gerusalemme che dovrebbe essere la base di qualunque accordo di pace.

Intanto la città vive mesi drammatici: strade deserte, attività commerciali chiuse, turismo azzerato e dunque meno testimonianze capaci di raccontare il processo di giudaizzazione in corso. Proseguono le demolizioni di case nei quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah: è stata abbattuta perfino la tenda del Comitato al-Bustan, simbolo della resistenza civile che tante volte abbiamo incontrato. Non siamo di fronte a una novità. Lo abbiamo denunciato per anni, spesso in solitudine insieme a poche organizzazioni della società civile internazionale: era chiaro dove si voleva arrivare e quali fossero le intenzioni del governo israeliano.

Oggi, davanti all'evidenza di una Cisgiordania spezzata e di una Gerusalemme snaturata, fingere che esista ancora una trattativa credibile è un'ipocrisia. E a questo quadro si aggiunge Gaza, con bombardamenti incessanti e migliaia di vittime civili che raccontano ogni retorica sulla sicurezza. Non è autodifesa nata dopo la tragedia del 7 ottobre non c'è strategia di sicurezza: è punizione collettiva, occupazione militare, violenza sistematica contro un popolo che da decenni subisce espulsioni, assedi e massacri.

Il governo italiano, continuando a sostenere Israele senza condizioni, si rende complice di questa catastrofe. Israele oggi va sanzionata non più e non meno come la Russia di Putin. Dire che non è ancora il tempo del riconoscimento politico della Palestina equivale a nascondere la testa sotto la sabbia e non riconoscere la dignità ad un popolo che sta soffrendo pur di continuare a respirare sulla propria terra. . È tempo di un cambio di rotta netto e immediato: chiedere la fine degli insediamenti, la cessazione delle operazioni militari a Gaza, il rispetto del diritto internazionale e delle risoluzioni Onu, il riconoscimento pieno dello Stato di Palestina.

Come Arci e Acli non ci rassegniamo al silenzio e non accettiamo la logica dei fatti compiuti. Alziamo la voce e continueremo a farlo, perché crediamo che pace e giustizia siano inseparabili, e che il futuro del popolo palestinese e di quello israeliano non possa che passare dalla fine dell'occupazione e dall'uguaglianza dei diritti.

Emiliano Manfredonia, presidente Acli
Walter Massa, presidente Arci