Trentasei anni fa, nella notte di Villa Literno, Jerry Masslo fu assassinato. Morì in una rapina, mentre rincasava stremato dal lavoro. Gli spararono per rubargli pochi soldi, il misero frutto di giornate passate a piegare la schiena nei campi di pomodori sotto il sole implacabile del Casertano. Era fuggito dall’apartheid sudafricano, cercava libertà e un futuro dignitoso, ma qui aveva trovato solo il volto feroce dello sfruttamento e della solitudine. Dormiva in baracche, lavorava senza diritti, viveva nella paura costante di essere trattato come un clandestino pur essendo un rifugiato. La sua vita, e la sua morte, furono la radiografia perfetta di un’Italia che preferiva chiudere gli occhi.

La sua uccisione scosse il Paese, perché improvvisamente l’opinione pubblica fu costretta a guardare in faccia ciò che fino ad allora era rimasto ai margini: un esercito di lavoratori invisibili, indispensabile all’economia eppure privi di ogni tutela. In quel sangue versato si rifletteva l’ipocrisia di un Paese che si diceva civile ma lasciava migliaia di migranti sotto scacco al caporalato, in condizioni che non avrebbero dovuto appartenere a nessuna democrazia occidentale. Da quell’orrore nacque una grande manifestazione contro il razzismo. Si disse che era l’inizio di una nuova coscienza collettiva. Non lo è stato.

Perché da allora la catena non si è spezzata. Le baraccopoli continuano a sorgere come metastasi della nostra economia, interi insediamenti di braccianti senza acqua né luce, ridotti a bestie da soma per l’agricoltura low cost. A Foggia, a Rosarno, a Latina, migliaia di persone sopravvivono in condizioni disumane, sotto il dominio dei caporali, in un sistema che arricchisce pochi e toglie respiro a molti. I governi, uno dopo l’altro, hanno preferito moltiplicare le leggi che rendono i migranti più ricattabili e sfruttabili, anziché riconoscerli per quello che sono: lavoratori che chiedono diritti e dignità. La vicenda di Masslo non è rimasta nel 1989: è un copione che si ripete con la stessa trama e nuovi attori.

Intanto il Mediterraneo si è trasformato in un cimitero. Da Cutro a Lampedusa, da Pylos a Sfax, le cronache ci restituiscono soltanto corpi senza nome. Uomini, donne e bambini lasciati annegare da governi che li devono numeri e non persone. Non si tratta di fatalità, ma di scelte precise: l’Europa che proclama diritti universali e poi costruisce muri, il nostro Paese che trasforma il mare in frontiera invalicabile. Cos’è cambiato da allora? Nulla. La stessa indifferenza, la stessa ipocrisia, la stessa complicità.

Ogni volta che un bracciante crolla sotto il caldo, ogni volta che un ghetto brucia, ogni volta che un barcone si spezza sulle onde, la politica finge stupore. Ma è uno stupore ipocrita, perché tutto era già scritto: nei decreti che blindano i permessi, nei contratti mai rispettati, nella filiera che trasforma i pomodori in oro e i lavoratori in scarti. Trentasei anni dopo, la responsabilità non è solo di chi spara o di chi odia: è di chi governa e sceglie deliberatamente di lasciare tutto com’è, mentre un'opinione pubblica assuefatta preferisce non vedere.

Ricordare Masslo non significa posare un fiore sulla sua tomba, ma guardare in faccia l’Italia di oggi. Significa denunciare un sistema che continua a reggersi su segregazione e sfruttamento, un modello produttivo che ha bisogno di braccia invisibili e vite sacrificabili. Significa rivendicare che la lotta sindacale, allora come oggi, è l’unica via per trasformare la rabbia in organizzazione, la disperazione in diritti.

Jerry Masslo continua a morire ogni volta che un migrante viene trattato come uno scarto. Continuerà a morire finché questo Paese non avrà il coraggio di scegliere: con chi sfrutta o con chi resiste, con chi erige muri o con chi li abbatte, con chi trasforma l’umanità in merce o con chi la difende come valore assoluto.