Da piccolo forse sognava Cinecittà, ma dev’essergli rimasto in mano solo il temperino. Alessandro Giuli ha trasformato la politica culturale in un film horror amministrativo. Urla fuori campo, sangue sui fondi e un finale sempre uguale, con lui che si applaude da solo mentre il pubblico scappa dalla sala. Non odia il cinema, semplicemente non sopporta che respiri senza il permesso del ministero.

Sembra un comprimario scappato da un set di Orson Welles: megalomane, barocco e convinto che basti una forbice per dirigere la realtà. Invoca la spending review come un rosario e promette amore eterno all’audiovisivo mentre ne recide le arterie. È l’arte della contraddizione elevata a disciplina di governo, il romanticismo dei tagliatori di teste. In fondo, chi meglio di un intellettuale di governo per confondere la cultura con un capitolo di spesa.

Il paradosso è che perfino il Tesoro, tempio della sobrietà contabile, ha dovuto frenarlo. I tecnici hanno sussurrato: attenzione, ministro, se togliete troppo il malato muore. Ma lui imperterrito, nella parte del chirurgo illuminato, ha risposto che il paziente doveva soffrire per rinascere. Così, mentre il mondo investe nella produzione culturale, l’Italia riscopre il gusto di spararsi nei piedi con eleganza ministeriale.

Poi è arrivato l’atto finale: la riunione al Collegio Romano, dove il nostro eroe ha puntato il dito contro la Ragioneria, rea di non lasciarlo compiere l’ennesimo numero di prestigio contabile. La sottosegretaria Borgonzoni ha tentato una correzione di rotta, ma la scena era già scritta: il ministro-martire che combatte i burocrati per amore del cinema. Con tanto di luci basse e applausi registrati.

Alla fine resta questa scena muta. Gli attori che chiedono ossigeno, i produttori che contano le briciole e il ministro che si specchia nel riflesso delle forbici, convinto d’aver creato un capolavoro. Forse il suo vero obiettivo era girare un film sperimentale sulla morte lenta della cultura italica. Il problema è che lo stiamo pagando noi contribuenti in fila al botteghino.