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C’è sempre un momento, nella politica italiana, in cui l’urgenza di “fare qualcosa” si traduce nell’arte raffinata del maquillage normativo. Il nuovo decreto legge sulla sicurezza sul lavoro nasce già con l’aria di chi ha imparato a mettere il casco solo per la foto di rito. Si annuncia come svolta epocale e invece inciampa nella solita burocrazia cerimoniale, quella che colleziona tragedie come statistiche e le chiama fatalità.
Hanno sventolato il badge di cantiere come fosse l’invenzione del secolo, quando i sindacati lo rivendicavano da tempo. Ma i problemi, quelli veri, restano a prendere polvere sotto la calce. Nessuna Procura nazionale, nessuna difesa per le famiglie che chiedono giustizia, nessuna liquidazione provvisionale che riconosca il dolore come diritto. È la giustizia a subappalto, dove i processi si perdono tra carte smarrite e competenze smozzicate.
Nel frattempo, il subappalto vero, quello che macina ribassi e vite, resta libero di allargarsi come una macchia d’olio. Il decreto lo ignora, preferendo la compagnia rassicurante dei buoni propositi. Così l’edilizia, un tempo patria di maestranze e saperi, si trasforma in una giungla di appalti a cascata, dove chi lavora in sicurezza è solo chi resta a casa. Le piccole imprese serie, quelle che reggono il tessuto del Paese, vengono stritolate dal “libero mercato” dei furbi.
Poi c’è la patente a crediti, l’ennesima trovata per burocrati annoiati. Un registro della virtù che funziona più per chi lo gestisce che per chi rischia la pelle. Come se bastasse un punteggio per evitare una caduta dall’alto o un ponteggio montato male. Mentre i falsi attestati di formazione proliferano e il dumping contrattuale diventa il nuovo cemento del profitto.
Alla fine resta la solita liturgia. Il minuto di silenzio, la corona di fiori, la conferenza stampa con toni bassi e sguardi contriti. Poi tutto ricomincia, identico. Le vittime sul lavoro non saranno salvate da questo decreto, ma forse dalle mani di chi, nonostante tutto, continua a crederci. E intanto la politica applaude sé stessa, nel più pericoloso dei cantieri, quello dell’ipocrisia.






















