Nella prima metà degli anni Cinquanta le principali rivendicazioni delle donne sul terreno del lavoro riguardano l’attuazione del dettato costituzionale sulla parità salariale e la realizzazione di una tutela della maternità che garantisca non solo migliori condizioni di lavoro, ma anche una serie di servizi esterni di sostegno (asili nido, mense eccetera). 

La legge sulla tutela delle lavoratrici madri, per la quale si era battuta Teresa Noce, verrà  approvata nel 1950.  “Questa legge – racconterà lei stessa – dovevamo elaborarla noi, donne comuniste elette per la prima volta in parlamento (…). Anche se non avevamo nessuna esperienza legislativa avremmo imparato, studiato, chiesto aiuto. Avremmo certo incontrato molte difficoltà, e saremmo state costrette a superare molti ostacoli, ma la lotta delle masse nel Paese ci avrebbe dato l’aiuto necessario. L’elaborazione del nostro progetto di legge non risultò facile. Ma tutti collaborarono, offrendoci un valido aiuto, anche se dovemmo affrontare discussioni accanite che qualche volta degenerarono in veri e propri litigi. Organizzammo piccole riunioni e grandi comizi, assemblee di operaie nelle fabbriche, commissioni di esperti cioè sindacalisti, medici, giuristi e ci incontrammo ripetutamente soprattutto con i compagni della Fiot (Federazione italiana operai tessili, ndr)”.

Il testo definitivo della legge, pur se limitativo rispetto alla proposta Noce, rappresenta un importante risultato per le lavoratrici italiane, ma apre un altro fronte di rivendicazioni. Molte imprese, infatti, per aggirare la legge, impongono alle assunte la cosiddetta clausola di nubilato, che prevede il licenziamento in caso di matrimonio.

Sempre per iniziativa di Teresa Noce, nel maggio del 1952 viene presentato alla Camera il progetto di legge per l’applicazione della parità di diritti e della parità di retribuzione per un pari lavoro, ma l’accordo sulla parità sarà raggiunto solo il 16 luglio 1960 relativamente ai soli settori industriali (le donne otterranno la parità salariale in agricoltura nel 1964). 

Recita l’accordo: “A conclusione delle trattative condotte in ordine al problema della parità di retribuzione fra lavoratori e lavoratrici; in relazione all’art. 37 della Costituzione, alla Convenzione n. 100 dell’Oil e all’art. 119 del Trattato istitutivo della Cee; al fine di attuare una classificazione unica del personale, non fondata sulle differenziazioni per sesso;  le parti addivengono al presente accordo”.

Purtroppo, va detto, in Italia la strada per la parità salariale è oggi ancora lunga. Secondo quanto emerso dal Global Gender Gap Report del World Economic Forum (un documento stilato ogni anno dal Wef che fa il punto sulle disparità di genere) nella classifica globale sulle disuguaglianze l’Italia è oggi sessantatreesima su 156 Paesi.

Il nostro bel Paese è messo male in classifica anche per il ruolo delle donne in politica, la quota di donne in Parlamento, le opportunità e la partecipazione economica, la parità retributiva tra uomini e donne.

Per chiudere il gap – si stima–- saranno necessari 267,6 anni, se continueremo di questo passo. Meno drammatica – si fa per dire – l’evoluzione complessiva che, tenendo conto dei quattro ambiti di analisi del report – politica, economia, educazione e salute – vedrà la parità raggiunta entro 135,6 anni, rispetto ai 99,5 anni ipotizzati dal rapporto precedente. Oggi le donne sono più precarie tra gli indipendenti, hanno più spesso un contratto a termine, hanno perso il lavoro più degli uomini in questo ultimo anno hanno meno probabilità di rientrare. Ma non doveva andare tutto bene?