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I pensionati e le pensionate al minimo dal 1° gennaio avranno un aumento di 3,13 euro al mese: tre caffè, se va bene. È questo il risultato della perequazione delle pensioni nel 2026 fissata all’1,4% dal decreto del ministero dell’Economia del 19 novembre e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 28 novembre 2025.
Inutile sottolineare che la misura è assolutamente insufficiente a recuperare la perdita di potere d’acquisto prodotta dall’impennata inflattiva del biennio 2022–2023 e che gli aumenti previsti risultino quasi del tutto erosi dall’Irpef e dalle addizionali, con un impatto reale minimo e in molti casi simbolico.
Da 616 a 619 euro: un aumento risibile
Un po’ di calcoli ed elaborazioni li hanno fatti in un report gli Uffici previdenza di Cgil e Spi. “Gli esempi concreti elaborati dall’analisi mostrano con evidenza quanto sia grave la situazione – spiega Ezio Cigna, responsabile previdenza della Cgil nazionale –: le pensioni minime aumenteranno di 3,12 euro, passando da 616,67 a 619,79 euro. Una pensione nel 2025 di 632 euro netti passerà invece nel 2026 a 641 euro netti, solo 9 euro in più al mese; una pensione di 800 euro netti crescerà anch’essa di soli 9 euro mensili, da 841 a 850 euro; una pensione da 1.000 euro netti aumenterà di soli 11 euro al mese; mentre una pensione di 1.500 euro lordi, dopo la tassazione, crescerà di appena 17 euro mensili”.
Per Cigna sono “numeri che parlano da soli e che dimostrano come non solo non si recuperi la perdita accumulata ma si prosegua su una strada che impoverisce ulteriormente chi vive già con redditi insufficienti”.
Le distorsioni del sistema
L’analisi di Cgil e Spi evidenzia anche un nodo strutturale del sistema: l’assenza di un coordinamento efficace tra perequazione, fiscalità e maggiorazioni sociali produce effetti distorsivi sul piano dell’equità complessiva. In alcuni casi, infatti, i trattamenti assistenziali e le pensioni minime integrate — strumenti indispensabili contro la povertà e giustamente esentati da Irpef — possono determinare importi netti finali molto vicini, e talvolta superiori, a quelli di pensioni contributive leggermente più alte, costruite con anni di lavoro e versamenti.
Questo non dipende dalle persone che percepiscono tali prestazioni, che vanno sostenute e tutelate, ma da una normativa che mantiene la no tax area ferma a 8.500 euro annui e non armonizza le regole tra i diversi istituti. Il risultato è un sistema che rischia di creare disuguaglianze non volute e di alimentare sfiducia e senso di ingiustizia sociale, compromettendo i princìpi di equità e dignità su cui deve fondarsi la previdenza pubblica.
Azzerata la flessibilità in uscita
La beffa sulle minime si somma ad altre gravi mancanze del governo in materia previdenziale, nonostante slogan e promesse in campagna elettorale sul superamento della legge Monti-Fornero, sulla flessibilità in uscita e su pensioni più dignitose. La possibilità di uscita anticipata con misure come Opzione donna e Quota 103 sono state infatti cancellate, e dal primo gennaio del 2027 come stabilito dalla legge di bilancio tornerà l’adeguamento automatico dei requisiti alla speranza di vita: dal 2027 ci vorrà un mese in più per lasciare il lavoro, due dal 2028 e così via. Anche qui, nonostante le promesse la sterilizzazione si avrà solo per le occupazioni gravose e usuranti, ma riguarderà solo l’1% della platea.
Cgil e Spi: servono interventi strutturali
La segretaria confederale della Cgil Lara Ghiglione e il segretario nazionale Spi Cgil Lorenzo Mazzoli sostengono che “servono interventi strutturali e non operazioni di facciata. Da tempo chiediamo l’allargamento e il rafforzamento della quattordicesima mensilità, strumento fondamentale di sostegno al reddito per milioni di pensionate e pensionati, insieme all’allargamento della no tax area per i pensionati, perché gli aumenti reali vengono oggi assorbiti dal prelievo fiscale e i redditi più bassi stanno sprofondando nella povertà”.
E ancora: “Il Paese non può permettersi di lasciare indietro chi ha lavorato una vita né di trasformare la condizione delle persone anziane in terreno di propaganda politica”.
Per Giglione e Mazzoli “questo esecutivo ha costruito una narrazione fatta di slogan e promesse sul superamento della legge Monti Fornero, sulla flessibilità in uscita e su pensioni più dignitose”. Ma, proseguono i dirigenti sindacali “la realtà che vivono ogni giorno lavoratrici, lavoratori, pensionate e pensionati è profondamente diversa e dietro agli slogan non c’è una riforma, ma un arretramento dei diritti e della dignità delle persone. Non solo l’azzeramento di qualsiasi forma di flessibilità in uscita, ma dal 2027 si andrà in pensione sempre più tardi e con assegni sempre più poveri”.
Il 12 dicembre si sciopera anche per le pensioni
“Non possiamo accettare che milioni di pensionate e pensionati ricevano aumenti di pochi euro al mese mentre le disuguaglianze crescono e il fisco si riprende gran parte della rivalutazione. Tre, cinque, nove, undici, diciassette euro sono una vergogna. Serve una riforma che rimetta al centro lavoro, contribuzione e diritti. Serve giustizia sociale”, ribadiscono Ghiglione e Mazzoli.
Che concludono: “Il 12 dicembre saremo in sciopero in tutta Italia anche per rimettere davvero al centro il tema delle pensioni: per difendere dignità e giustizia sociale, per garantire equità e potere d’acquisto a chi ha lavorato una vita. Perché senza una riforma vera e senza rispetto per il lavoro e per le persone, non c’è futuro né per i giovani né per gli anziani”.

























