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“L’azione sindacale nell’epoca del lavoro digitale e dell’intelligenza artificiale”. Questo il titolo dell’appuntamento di domani (11 settembre) organizzato a Bologna nell’ambito dell’VIII conferenza annuale dell’Indl (International Network on Digital Labor) in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio della Cgil. Un momento importante di confronto tra mondo accademico e società civile su un tema attualissimo: cosa si nasconde, in termini di sfruttamento del lavoro, dietro al mondo fantasmagorico, quasi etereo, dell’intelligenza artificiale.
Ne abbiamo parlato con Antonio Casilli, ordinario Sociologia presso l’Istituto Politecnico di Parigi, che è stato il co-fondatore dell’Indl ed è autore di pubblicazioni fortunate e tradotte in tutto il mondo (tra cui ricordiamo Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli 2020) e di documentari di divulgazione su questi temi, come l’ultimo In the Belly of AI. “Partirei sottolineando un elemento importante: a questo appuntamento saranno presenti, oltre a ricercatori, sindacati e associazioni, lavoratori da tutto il mondo”, ci dice.
Quello che potremmo definire il lato nascosto della rivoluzione digitale…
Esattamente così. Quando si pensa all’intelligenza artificiale da un lato si assiste all’esaltazione di tutto ciò che di meraviglioso accadrà grazie a questa tecnologia, ma dall’altro sorgono paure incontrollate. Le fantasmagorie possono infatti generare fantasmi, il più temibile dei quali è quello secondo cui le intelligenze artificiali sono pensate per sostituire lavoratori umani e che dunque si produrrà ben presto una disoccupazione di massa. Ma ormai tanti studi ci dicono che le cose non stanno così.
In che senso?
Nel senso che a licenziare, magari utilizzando l'intelligenza artificiale come pretesto, sono sempre i padroni. Non è una tecnologia a licenziare. Ma c’è un altro aspetto importante: per far funzionare l’intelligenza artificiale in realtà serve una quantità enorme di lavoro. Altro che fine del lavoro. Solo che questo lavoro noi non lo vediamo per tanti motivi. Innanzitutto a causa della presenza di segreti industriali, questioni di proprietà intellettuale e, se vogliamo, per la mancanza di trasparenza delle grandi aziende tecnologiche. E non lo vediamo anche perché questi lavoratori li si cerca lontano, nei Paesi più poveri dove vengono pagati molto meno di quanto non lo sarebbero in Europa, negli Stati Uniti o anche in altre realtà emergenti.
Dove pescano le grandi aziende tecnologiche?
Venezuela, Madagascar, Kenya, Nepal, ad esempio, dove il costo del lavoro è bassissimo. Si tratta di un vero e proprio esercito industriale di riserva, ma composto non da disoccupati scarsamente formati, bensì da giovani preparati e competenti. Sono loro a far funzionare l'intelligenza artificiale, la preaddestrano (ChatGpt è appunto l’acronimo per Chat Generative Pre-trained Transformer) e continuano ad aggiornarla, correggono le sue “disfunzioni”. Ecco, il fatto di aver invitato questi “invisibili” a partecipare a un evento presso il Tecnopolo di Bologna, uno dei più grandi data center europei, secondo me è un fatto di grande importanza anche simbolica.
Lavoratori che vengono dai Paesi più poveri del mondo… Quindi la “grande” tecnologia non si discosta molto da quello che avviene nei settori più tradizionali, penso al tessile ad esempio…
Sì, il meccanismo è lo stesso. Nel mio team all’Istituto politecnico di Parigi abbiamo ricostruito le filiere e le supply chain e abbiamo scoperto non solo che Google, Amazon, Meta e così via, si comportano come le aziende del tessile che fanno outsourcing esternalizzando la produzione nei Paesi a basso costo del lavoro, ma che questi Paesi sono gli stessi ormai da un secolo. In questi luoghi, infatti, sono state costruite infrastrutture in cui si può fare di tutto: dai jeans a ChatGpt. A questo poi va aggiunto che i governi mettono in atto politiche fiscali che agevolano gli investimenti stranieri. Si è insomma creato un sistema disfunzionale basato sullo sfruttamento delle persone e fondato su filiere che esistono da tempo.
Quale ruolo ha la ricerca nello svelare questi aspetti nascosti?
La ricerca ha un ruolo fondamentale: raccogliere dati e prove su quello che sta succedendo realmente. Naturalmente ci sono anche ricercatori, per esempio nel machine learning, che lavorano con le industrie e sono complici di questo sistema di sfruttamento. Noi all’Indl abbiamo un approccio “eretico” all’IA: queste tecnologie portano indubbiamente vantaggi, ma quali costi umani comportano? Cosa stiamo facendo ai lavoratori e ai loro diritti? Cosa si può fare per migliorarne la situazione?
Tutto questo riguarda solo lavoratori “lontani”? O anche noi?
Ovviamente riguarda anche noi. Attualmente la minaccia dell’Intelligenza artificiale in Italia nasce proprio da questo: non dall’arrivo di fantomatici robot, ma da una filiera di esternalizzazione selvaggia e di sfruttamento che già ha forti ripercussioni sul mercato del lavoro. Nella rete Indl ricercatori di tante discipline diverse stanno lavorando da anni per trovare una maniera di sviluppare queste tecnologie che sia più rispettosa dei diritti dei lavoratori. Per ora la situazione purtroppo è disastrosa.
Quanto è importante nel vostro lavoro di ricerca il ruolo degli attori sociali, a cominciare dai sindacati?
È fondamentale. La ricerca non è separata dalla società, dall'economia, dalla politica. Gli universitari non vivono in una torre d’avorio. Ma nel nostro caso c’è di più.
Che cosa?
Vogliamo fare un passo ulteriore. Invitiamo cioè i lavoratori a diventare essi stessi attori della ricerca: non soggetti passivi. Spesso co-pubblichiamo con loro e realizziamo delle vere e proprie inchieste operaie - genere glorioso in Italia - sui temi legati all’intelligenza artificiale e al lavoro nelle piattaforme. In questo modo i lavoratori producono dati, sapere, testimonianze, partecipano a convegni. Nell’iniziativa di Bologna, come detto, essi interverranno alla pari con gli studiosi universitari.
La lotta contro queste nuove/vecchie forme di sfruttamento è dunque globale. Cosa possono fare i sindacati?
Possono fare tantissimo. Ci sono forze nuove che emergono dal basso, da tutti questi luoghi di sfruttamento: sindacati, esperienze di organizing sul territorio. La prima cosa da fare è dunque riconoscerne il valore e poi creare reti di solidarietà internazionale. Questo è lo spirito dell’iniziativa di Bologna: vogliamo stimolare un dialogo che alzi il livello della riflessione.
Secondo te per affrontare questa sfida il sindacalismo tradizionale deve cambiare?
Personalmente non amo le formule secondo le quali per intercettare queste novità bisognerebbe andare oltre le forme tradizionali di fare sindacato. Queste forme hanno al proprio interno strutture e saperi nell’organizzazione dei lavoratori e delle loro lotte preziosissime e su cui proprio questi “nuovi” sindacati spesso si appoggiano. Sindacati tedeschi come Ver.di, ad esempio, sono molto attivi non solo nel cercare di organizzare i lavoratori tecnologici in Germania, ma anche in Africa e in India. Stesso discorso per Uni.Global, sindacato globale che opera a livello locale in diverse realtà del mondo.
Quindi “superare” non serve…
Non si tratta di superare ma di mettere a profitto la lezione e le grandi infrastrutture umane e organizzative dei sindacati tradizionali per lavorare insieme ai nuovi soggetti.