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Due uomini, due storie, due universi talmente lontani da risultare alla fine vicini. Come gli opposti che si attraggono, come i nemici che si scoprono. Una cella e due vite troppo ingombranti per non starci strette. Sono i due protagonisti di Le cose che t’ho imparato, tratto da un testo di Carlo Picchiotti. Lo spettacolo, adattamento e regia di Siddhartha Prestinari, è andato in scena a Roma, al Teatro Cometa Off.
Sul palco, commedia e dramma si fondono, restituendo quell’ironia che è propria dell’esistenza, anche nelle vicende più cupe e nelle sue pieghe più nere. Stefano Ambrogi ed Ermenegildo Marciante interpretano due detenuti: un galeotto in cella da oltre vent’anni e un imputato spinto dentro da una scelta eticamente complessa. È in una squallida cella di tre metri per tre che si svolge tutta la scena.
Un lungo piano sequenza che rivelerà, man mano, segreti inconfessabili e dolori sottaciuti. La durezza del galeotto da un lato, talmente abituato al carcere che ne ha fatto la sua casa; la fragilità emotiva del giovane imputato dall’altro, totalmente impreparato alla realtà della detenzione. Come lo è lo spettatore, che insieme a lui supera i numerosi cancelli che portano alla sua cella. Per circa un’ora di spettacolo il pubblico non è più chiuso fuori (dalla quarta parete) bensì chiuso dentro insieme ai due personaggi, che si confrontano fino allo sfinimento.
Le condizioni della detenzione prendono allora corpo sulla scena, non solo attraverso le parole degli attori. Ma anche, e soprattutto, attraverso i loro gesti, gli oggetti con cui entrano in contatto: un coltello, un mazzo di carte, una grattugia. Ma soprattutto, un piatto di Gricia. Le cose che t’ho imparato sono tutte le dritte per sopravvivere in carcere, che il detenuto di lungo corso cerca di dare all’imputato nel poco tempo che passeranno insieme. Ma anche tutte quelle che un padre mancato non ha potuto insegnare a un figlio orfano.
La vera forza della storia sta nel suo risvolto tragicomico, che usa la battuta come strumento per veicolare anche i messaggi più duri. Giusta la scelta registica di affidarsi (e fidarsi) di una romanità che è capace di fare metafora su qualsiasi evento – anche il più tragico – della vita. In questo, Stefano Ambrogi ci regala un’interpretazione autentica, sanguigna, leggera e profonda al tempo stesso. Dall’altro lato, Ermenegildo Marciante gli fa da contrappeso, come due pugili al loro incontro sul ring. La paura e l’ingenuità, nella sua interpretazione dapprima nervosa, si aprono man mano a risvolti buffi, che invitano all’empatia.
Accanto al tema della detenzione, anche se solo tratteggiato, quello del diritto alla scelta, all’autodeterminazione sulla propria vita. Una riflessione etica di non poco conto, che apre uno squarcio su un argomento che nel nostro Paese resta tuttora un imperdonabile tabù. Le cose che t’ho imparato è la dimostrazione che della vita si può e si deve sorridere sempre, anche quando ci sarebbe da piangere. Perché, come diceva Flaiano: la situazione è grave, ma non seria.























