La legge delega sul salario minimo è stata approvata in via definitiva dal Senato. Peccato che non preveda alcun salario minimo orario e che anzi introduca alcuni provvedimenti pericolosi. Parola della Cgil, che dopo aver visto snaturare alla Camera la proposta iniziale mette sull’avviso: “Il titolo parla di salario minimo – spiega Nicola Marongiu, responsabile area contrattazione, politiche industriali e del lavoro della Cgil -, il contenuto invece è una delega al governo sulla contrattazione collettiva e sulla retribuzione dei lavoratori”.

Testo snaturato

La norma era frutto inizialmente di una proposta delle forze di opposizione (che oggi parlano di legge truffa e di fumo negli occhi dei lavoratori) e introduceva con un’applicazione immediata una paga oraria minima legale di 9 euro.

“Ma nella discussione alla Camera dei deputati – prosegue Marongiu -, il governo ha presentato un emendamento che ha sostituito integralmente l’intero disegno di legge”. Così si è arrivati a una legge sul salario minimo che non prevede alcun salario minimo. 

Mentre in Europa la direttiva 2022/2041 emanata dal Parlamento e dal Consiglio del 19 ottobre 2022, finalizzata a garantire l’adeguatezza dei salari, di fatto non obbliga gli Stati membri a introdurre il salario minimo, l’Italia rimane tra i Paesi che ne sono sprovvisti: insieme a noi, Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia.

Delega al governo

E quindi che cosa contiene questo provvedimento? In pratica la norma delega l’esecutivo a varare entro sei mesi uno o più decreti legislativi seguendo determinati criteri, con l’obiettivo dichiarato di assicurare trattamenti retributivi giusti ed equi, contrastare il lavoro sottopagato, stimolare il rinnovo dei contratti collettivi nazionali, contrastare i fenomeni di concorrenza sleale, il cosiddetto dumping.

I decreti dovranno “definire, per ciascuna categoria di lavoratori, i contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati", in modo da prevedere che il trattamento minimo “costituisca la condizione economica minima da riconoscere ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria”.

“Contratti maggiormente applicati”

“Questo è il primo aspetto problematico – afferma Marongiu -. Si fa riferimento ai contratti maggiormente applicati e non invece a quelli sottoscritti dai soggetti comparativamente più rappresentativi, come c’è in tutta la nostra legislazione e giurisprudenza. È una cosa anacronisitica. Perché anche successivamente alla presentazione di questa delega come Cgil abbiamo recuperato in altri provvedimenti il riferimento ai soggetti comparativamente più rappresentativi”.

La differenza non è da poco: una cosa è riconoscere la legittimità di un contratto collettivo sulla base della rappresentatività dei soggetti (associazioni datoriali e sindacati) che lo hanno firmato, altra cosa è quando la legittimità è in capo solo alle scelte delle aziende che applicano un determinato contratto, pronte spesso a firmare accordi pirata o comunque più sfavorevoli per i lavoratori, aprendo la strada al fenomeno del dumping.

Rischio gabbie salariali

Poi c’è la questione delle gabbie salariali a cui allude il testo quando prevede che nei decreti ci siano “strumenti volti a favorire il progressivo sviluppo della contrattazione di secondo livello”, ovvero a livello territoriale o aziendale. “Questo è un aspetto macroscopico che ci preoccupa – dice ancora Marongiu -. Tecnicamente nella legge delega si fa riferimento nella contrattazione di secondo livello alla contrattazione di carattere adattivo, alla dimensione territoriale e quindi alla possibilità che il salario nazionale sia derogato su base territoriale. Quello che possiamo chiamare in gergo il ritorno alle gabbie salariali”.

Giudizio negativo

Il giudizio del sindacato è in definitiva negativo, oltre che per i contenuti anche per il metodo che è stato utilizzato per l’approvazione, che non ha permesso una discussione parlamentare sul tema. “Senza contare che la legge prevede degli stimoli al rinnovo dei contratti collettivi nazionali in ambito privato nell’interesse dei lavoratori – conclude Marongiu -, ma non c’è una norma finanziaria di supporto”.