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La ricerca è lavoro e, come tale, va trattata. Sembra banale ma, per chi ci governa, pare non sia così. Prosegue infatti una vera e propria offensiva per rendere le nostre università sempre più precarie, ed è per questo che 145 docenti stabili dei nostri atenei hanno firmato un appello per fermare una deriva sempre più evidente.
L’ultima invenzione dell’esecutivo è stata l’approvazione, nel decreto Valditara (il dl 45/2025), dell’emendamento Occhiuto-Cattaneo che battezza due altre figure precarie in università, ricerca, accademie e conservatori: un incarico post-doc con compiti didattici e un incarico di ricerca che di fatto ripropone gli assegni di ricerca. Quest’ultima tipologia era stata cancellata con la riforma del pre-ruolo del 2022 (il dl 36/2022). Riforma che, seguendo le condizioni poste dal Pnrr per avere i finanziamenti, prevedeva invece il solo contratto di ricerca, un contratto vero con diritti e tutele.
Come si legge nell’appello, che in soli due giorni ha raccolto 1.500 adesioni, “noi riteniamo che la ricerca sia un lavoro e quindi che qualunque rapporto di lavoro per ricercatrici e ricercatori a termine o a progetto non può che essere inquadrato in un normale rapporto di lavoro a tempo determinato, con tutte le relative tutele (maternità, malattia, ferie, contributi previdenziali adeguati, ecc.)”.
Per i firmatari dell’appello l’emendamento, così come la riforma del preruolo prevista nel dl 1240 (che per ora è stata bloccata grazie a un ricorso alla Commissione europea) è funzionale a “mantenere la situazione attuale invariata, con quasi la metà di lavoratori della ricerca e della docenza precari e sottopagati, scaricando il peso della scarsità di risorse sul settore più fragile della comunità universitaria. Una ricerca di qualità ha bisogno, in realtà, di stabilità e indipendenza delle ricercatrici e dei ricercatori”.
D’altra parte la situazione in cui versano le nostre università è nota: “I tagli al Fondo del finanziamento ordinario, dello scorso anno (oltre 500 milioni), ai quali si sommano le necessità di nuove risorse per coprire l’inflazione e gli aumenti stipendiali del personale (oltre 600 milioni nel complesso in questi anni), hanno generato una drammatica scarsità di risorse per gli atenei, nonché un radicale ridimensionamento del reclutamento tenure-track (i ricercatori a tempo determinato di tipo B, ndr)”.
Durissimo il commento di Gianna Fracassi, segretaria generale Flc Cgil: “Le voci di preoccupazione e contrarietà rispetto a questo provvedimento si stanno moltiplicando, non solo tra i precari. Riteniamo inaccettabile la moltiplicazione del precariato e l’uso di figure atipiche, con scarse tutele e a basso costo, si scaricano così sui giovani la grave inadeguatezza dei finanziamenti e i tagli operati nell’ultimo anno”.
“Ci auguriamo – conclude Fracassi - che la discussione ora in corso alla Camera modifichi questi indirizzi e, in ogni caso, presenteremo anche alla Commissione europea le ragioni di chi ritiene questo provvedimento un grave passo indietro rispetto ai principi sanciti dalla riforma del 2022, allora inserita nel Pnrr”.
Una battaglia che riguarda tutti, non solo i precari, visto che nei giorni scorsi il Consiglio dei ministri ha licenziato un altro provvedimento grave, quello su abilitazioni e concorsi che, cancellando l’abilitazione nazionale, punta a riportare le prove a livello dei singoli atenei, con tutte le storture che conosciamo. L’idea insomma è quella di un’università sempre più precaria e localistica: il contrario di ciò che invece dovrebbe essere a cuore a un Paese avanzato. La comunità universitaria non ci sta: lo scorso 12 maggio c’era stato uno sciopero, ora l’appello. La speranza è che la ministra Bernini sappia cogliere questi segnali.