Gli ultimi dati sul pil confermano la lunga stagnazione dell’economia italiana che, dopo la recessione del 2020, il rimbalzo del 2021 e la ripresa del 2022, a partire dal 2023 è tornata su un sentiero di crescita molto bassa, prevista anche quest’anno e nei prossimi. Infatti, secondo le ultime previsioni della Commissione Europea, l’Italia sarà l’unico Paese dell’Unione con un pil inferiore all’1% sia nel 2026 che nel 2027.

Si tratta di una profonda crisi dimostrata anche dall’andamento della produzione industriale che registra un calo che prosegue ininterrotto dall’ultimo trimestre 2022, a parte qualche piccolo sussulto mensile. A rendere il quadro ancora più preoccupante c’è il fatto che l’Italia senza il contributo del Pnrr sarebbe già entrata in recessione e che i dazi statunitensi non hanno ancora dispiegato tutti i loro effetti sulla nostra economia.

Nel frattempo, dopo il quadriennio 2021-2024 caratterizzato da un’alta inflazione cumulata (Ipca +18,6%) determinata dalla crescita dei profitti, nel 2025 i prezzi hanno ripreso a correre, con un’inflazione acquisita che ad ottobre si è attestata al +1,7%. L’Indice dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona – il cosiddetto “carrello della spesa” – ha registrato un’inflazione cumulata del +21,6% nel quadriennio e una acquisita del +2,4% ad ottobre 2025. Particolarmente allarmante è il differenziale di inflazione tra il carrello della spesa e l’indice complessivo perché indica una maggiore pressione per le famiglie meno abbienti.

In questi anni la dinamica salariale non ha seguito quella dei prezzi e tra l’andamento dell’inflazione e quello delle retribuzioni contrattuali orarie permane un divario ancora molto ampio: a settembre 2025, i salari reali sono inferiori dell’8,8% rispetto a gennaio 2021. Gli ultimi dati sui contratti collettivi fotografano la situazione al terzo trimestre 2025, cioè prima del recente rinnovo dei metalmeccanici, con 5,6 milioni di dipendenti in attesa del rinnovo contrattuale e con un tempo medio di attesa di oltre due anni. L’aggiornamento non tempestivo della massa salariale all’inflazione significa alimentare un’ulteriore perdita del potere d’acquisto dei salari.

Infine, dietro la crescita dell’occupazione si nascondono tre criticità che mostrano tutte le fragilità del mercato del lavoro italiano. Primo: con un pil stagnante e un lieve aumento delle ore lavorate, la qualità dell’occupazione resta bassa; inoltre, nel secondo trimestre 2025 i lavoratori a termine sono ancora 2,6milioni e il 72,7% permane in questa condizione. Secondo: la crescita è trainata dagli over 50, che rappresentano oltre il 40% degli occupati, costretti a restare al lavoro per l’aumento dell’età pensionabile; il tasso di occupazione (62,2% nel 2024), il più basso dell’Ue, è determinato anche del calo della popolazione in età lavorativa.

Terzo: le ore di cassa integrazione autorizzate sono aumentate del +18,5% a gennaio-settembre 2025 rispetto allo stesso periodo del 2024, ma l’impatto non sempre emerge nelle statistiche sul mercato del lavoro perché i cassaintegrati vengono esclusi dagli “occupati” solo se la loro assenza dal lavoro supera i tre mesi.

Quindi, ricapitoliamo: lunga stagnazione economica, profonda deindustrializzazione, alta inflazione cumulata, forte perdita del potere d’acquisto di salari (e pensioni), occupazione in crescita solo tra gli over 50, precarietà molto diffusa, aumento delle ore di cassa integrazione. Con un quadro macroeconomico in netto peggioramento, non è chiaro quali siano i record che il governo italiano continua a rivendicare.

Il miglioramento del quadro di finanza pubblica, celebrato anch’esso dal governo e valutato positivamente dalle agenzie internazionali di rating, in realtà è il risultato di un pesante consolidamento fiscale, pari a circa 13 miliardi annui, deciso dallo stesso Esecutivo italiano con il Piano strutturale di bilancio (Psb) varato l’anno scorso. La strategia governativa si è basata, da un lato, sulla riduzione della spesa primaria netta che cresce, in termini nominali, meno dell’inflazione prevista, determinando, così, una sua riduzione in termini reali; e, dall’altro, su un aumento nascosto della tassazione su lavoratori dipendenti e pensionati tramite il drenaggio fiscale: un meccanismo che, in presenza di inflazione e con un’Irpef non indicizzata all’inflazione, preleva silenziosamente maggiori imposte proprio da salari e pensioni.

In questi anni di alta inflazione cumulata, nonostante non ci sia stato un aumento della capacità contributiva dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, questi ultimi hanno pagato 25 miliardi in più di imposte non dovute. Un prelievo surrettizio su salari e pensioni che non solo non è stato restituito tramite un rafforzamento dei servizi pubblici ma che viene utilizzato dal governo per migliorare i saldi di finanza pubblica, con l’obiettivo di aprire uno spazio per il riarmo. Infatti, con meno uscite (riduzione della spesa pubblica) e più entrate (aumento delle imposte su salari e pensioni), il governo può ridurre il rapporto deficit/pil intorno alla soglia del 3% già quest’anno e garantirsi l’uscita dalla procedura per disavanzo eccessivo nella prossima primavera. Cosa che consentirà all’esecutivo sia di ricorrere ai prestiti del fondo comunitario Safe, sia di attivare la clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità e crescita per scomputare le spese per la difesa per quattro anni e di finanziare, così, la corsa al riarmo, a partire dai +23 miliardi nel triennio 2026-2028 come esplicitato nel Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp). Tutto ciò nei prossimi anni si tradurrà in un ulteriore indebitamento per il nostro Paese e richiederà una maggiore austerità rispetto a quella già prevista.

Il piano europeo “Rearm Europe” e gli impegni assunti in sede Nato, entrambi avallati dal governo italiano, sconvolgeranno gli equilibri di bilancio e modificheranno la composizione della spesa pubblica. Sulla base di dati ufficiali, abbiamo stimato che la crescita della spesa in difesa dal 2,0% del pil di oggi al 5,0% entro dieci anni significa per l’Italia passare dai 45,2 miliardi nel 2025 a oltre 146,2 miliardi nel 2035. Tradotto: ci sarà un aumento delle risorse destinate alla difesa di oltre +10 miliardi annui e, alla fine del decennio, la spesa cumulata ammonterà a circa 964 miliardi. Si tratta di un’ingente mole di risorse che sarà sottratta ad altri capitoli fondamentali come sanità, previdenza, salari e investimenti pubblici.

Le scelte di politica economica non sono mai neutrali, bensì il risultato di decisioni politiche. Ed è una chiara scelta politica del governo quella di aver impostato una manovra che non incide sulla crescita e che si basa su austerità (forte riduzione della spesa pubblica con drammatiche conseguenze sul sistema pubblico dei servizi utilizzato da lavoratori dipendenti e pensionati), drenaggio fiscale (aumento silenzioso delle imposte proprio su salari e pensioni) e riarmo (avvio di una pericolosa economia di guerra che modifica il modello industriale, sociale e di sviluppo del nostro Paese).

Oltre a chiedere la restituzione del drenaggio fiscale già subìto e la sua neutralizzazione attraverso l’indicizzazione automatica dell’Irpef all’inflazione, riteniamo che le risorse necessarie per finanziare la spesa pubblica si possano recuperare attraverso una riforma complessiva del sistema fiscale ispirata all’articolo 53 della Costituzione, una vera lotta all’evasione fiscale e contributiva che si attesta a oltre 100 miliardi e, infine, una tassazione su (extra)profitti, rendite e grandi ricchezze. Su quest’ultimo punto abbiamo avanzato la proposta di “contributo di solidarietà” che, con un’aliquota dell’1,3% applicata esclusivamente su ultra milionari e miliardari (500 mila contribuenti) con una ricchezza netta superiore a 2 milioni di euro, consentirebbe di recuperare un gettito addizionale di +26 miliardi di euro. Si tratta di un contributo minimo che riguarda soltanto il top 1% della distribuzione della ricchezza a vantaggio del restante 99%.

Per tutte queste ragioni, e anche per tante altre, abbiamo proclamato lo sciopero generale per il prossimo 12 dicembre.

Nicolò Giangrande, economista e responsabile Ufficio economia Cgil