Inauguriamo la nuova rubrica di Collettiva, “Linea Economia”, con un’intervista al segretario confederale Cgil Christian Ferrari. Il dirigente sindacale esamina la manovra ora all’attenzione del Senato, illustrando gli scenari economici che la sua approvazione determinerà.

La legge di bilancio all’esame del Parlamento, la quarta del Governo Meloni, che scelte compie? Che Paese immagina?

Se dovessimo sintetizzarne il contenuto, potremmo usare due sole parole: “austerità” e “riarmo”. Austerità selettiva a carico dei soliti noti, ossia chi vive di reddito fisso, che vengono colpiti sia nel salario diretto, attraverso l’inflazione non recuperata e il drenaggio fiscale, sia nel salario indiretto, attraverso definanziamenti e tagli a sanità, istruzione, non autosufficienza, politiche per la casa, trasporto pubblico, trasferimenti a Regioni ed enti locali. Va poi aggiunto il capitolo previdenziale, sul quale si continua a fare cassa penalizzando gli assegni pensionistici e alzando in maniera indiscriminata l’età pensionabile. Infine, non si sostiene, attraverso gli investimenti pubblici, alcuna politica industriale in grado di invertire il declino produttivo che prosegue da tre anni.

A cosa serve tutta questa austerità?

A uscire dalla procedura d’infrazione un anno prima del previsto, per attivare già nel 2026 la “clausola di salvaguardia” per scomputare dal Patto di stabilità le spese militari (+23 miliardi in armi nel triennio 2026-2028). Un capolavoro al contrario, che produrrà nei prossimi due anni la crescita del pil più bassa dell’intera Unione Europea.

Anche la manovra dovrebbe essere coerente con la Costituzione, ossia garantire i diritti di cittadinanza. Su questo versante, che finanziaria dobbiamo aspettarci?

Nulla, proprio nulla, a partire dal diritto di cittadinanza che viene prima di ogni altro: quello alla salute. Con la manovra il finanziamento della sanità pubblica scenderà, nel 2028, sotto il 6 per cento in rapporto al pil. Si tratta del livello più basso di sempre, con la messa in discussione della stessa aspettativa di vita delle persone. Del resto, già oggi quasi sei milioni di persone rinunciano addirittura a curarsi e le famiglie spendono in sanità privata oltre 43 miliardi di euro all’anno. Stesso discorso vale per l’intero sistema pubblico dei servizi. Il welfare è sempre meno pubblico e meno universalistico, e non più in grado di curare le ferite sociali del nostro tempo.

La Cgil afferma che per restituire al Sistema sanitario nazionale qualità e universalità occorre portare la spesa al 7,5 per cento. Utopia, desiderio o possibilità reale, visti i conti pubblici?

Abbiamo fatto una proposta molto precisa per recuperare le risorse che servono: prevedere un contributo di solidarietà dell’1,3 per cento sui 500 mila contribuenti più ricchi. Quando abbiamo illustrato la nostra richiesta nell’incontro a Palazzo Chigi hanno reagito scandalizzati, come se avessimo pronunciato una bestemmia. Evidentemente, per loro, è molto meglio sottrarre 25 miliardi di euro a lavoratori e pensionati con il fiscal drag, senza investirli peraltro in spesa sociale, piuttosto che prelevarne 26 da milionari e miliardari.

E poi ci sarebbero anche flat tax, condoni vari…

Infatti, non ci siamo limitati al contributo di solidarietà. Abbiamo anche denunciato l’ingiustizia della flat tax per i professionisti benestanti che, al netto del tax gap, pagano molte meno tasse di chi vive di salario e di pensione. Abbiamo contestato i condoni, le sanatorie, i concordati preventivi e tutti gli strumenti che vengono adottati dal governo per consentire a molti, in realtà troppi, di sottrarsi ai propri doveri con il fisco, come confermano i dati in crescita dell’evasione fiscale e contributiva, tornata a superare i 100 miliardi di euro. In definitiva, c’è un modo per sostenere lo stato sociale: approvare una vera riforma fiscale, all’insegna dei valori costituzionali dell’equità e della progressività.

Meloni e Giorgetti sostengono che questa manovra è a favore del ceto medio e che chi ha una busta paga di 2 mila euro non è ricco. La Cgil, in compagnia di Istat e Banca d’Italia, sostiene che la maggior parte delle risorse recuperate con la riduzione degli scaglioni Irpef va a favore delle famiglie più ricche.

Lo sappiamo anche noi che un reddito da 40 mila euro lordi all’anno non è ricco, tutt’altro. Non basta però che il ministro Giorgetti lo dica, dovrebbe assumere scelte conseguenti, a partire dalla neutralizzazione del drenaggio fiscale. Cosa che si guarda bene dal fare. Il fiscal drag cumulato nel triennio 2023-2025 dai salari con un imponibile fiscale tra i 28 mila e i 50 mila euro va da un minimo di circa 1.900 euro a un massimo di oltre 3.600. I benefici che a queste fasce di reddito verranno garantiti dalla legge di bilancio 2026, attraverso la riduzione della seconda aliquota dell’Irpef dal 35 al 33 per cento, oscillano tra zero e 440 euro all’anno. La verità, dunque, è molto semplice: senza neutralizzare il fiscal drag, indicizzando l’Irpef all’inflazione, il governo non aiuta la cosiddetta classe media, ma ne favorisce, anzi ne determina, l’impoverimento.

Oltre l’82 per cento dei giovani che hanno trovato lavoro nei primi sei mesi del 2025 è stato assunto con contratti precari. Che risposte arrivano dalla manovra?

Nessuna. Il governo continua a dire no al salario minimo e a qualunque riforma della legislazione sul lavoro che contrasti una precarietà che, da lavorativa, sempre più spesso diventa esistenziale. Inoltre, non finanzia politiche abitative degne di questo nome, e potrei continuare. Per rendersi conto di quale sia il risultato delle mancate politiche a sostegno delle nuove generazioni, basta un numero: sono 100 mila le ragazze e i ragazzi che ogni anno lasciano l’Italia per cercare un lavoro dignitoso e una vita migliore fuori dai nostri confini nazionali.

Stiamo quindi tornando a essere un Paese di emigrati…

La vera emergenza è questa emigrazione, non l’immigrazione che la destra strumentalizza senza neppure essere in grado di garantire la sicurezza delle cittadine e dei cittadini. Se non si ferma quest’emorragia di intelligenze e di passione, che acuisce l’inverno demografico in cui siamo immersi da anni, il nostro Paese semplicemente non ha futuro.

Infine, scelte e priorità inevitabili o un’altra manovra è possibile?
Non solo è possibile, ma è necessaria e urgente. Abbiamo avanzato richieste precise e spiegato come realizzarle. Chiediamo la restituzione del fiscal drag e la sua neutralizzazione per il futuro, come avviene non in Unione Sovietica, ma negli Stati Uniti e in tanti Paesi europei. Chiediamo il rinnovo di tutti i contratti nazionali di lavoro, pubblici e privati, per difendere e rafforzare il potere d’acquisto, cui affiancare una vera detassazione degli incrementi. E chiediamo il rafforzamento e l’estensione della quattordicesima per i pensionati, il blocco dell’aumento automatico dell’età pensionabile per tutte e tutti, una maggiore flessibilità in uscita e una pensione contributiva di garanzia per precari e discontinui.

E sui temi più specifici del lavoro?

Servono vere politiche industriali per i settori manifatturieri e per i servizi, per innovare il nostro sistema produttivo, difendere l’occupazione e creare nuovo lavoro di qualità. Occorre tutelare la salute e la sicurezza sul lavoro, anche cambiando il sistema perverso degli appalti. Bisogna, infine, sia contrastare la precarietà e il lavoro povero, nero e sommerso, sia rilanciare il sistema pubblico dei servizi (sanità, istruzione, stato sociale). Ma per fare tutto questo ci sono due precondizioni ineludibili.

Quali sono?

La prima: andare a prendere i soldi dove sono, ossia da profitti, extra profitti, grandi ricchezze ed evasione fiscale. La seconda: rinunciare alla folle corsa al riarmo, che mira a convertire la nostra e quella europea in un’economia di guerra, e che sottrarrà un’ingentissima mole di risorse alle vere priorità economiche e sociali del Paese. Solo per l’Italia, parliamo di quasi mille miliardi di euro, se si vuole davvero raggiungere il 5 per cento del pil entro il 2035.

C’è un filo che lega le piazze per Gaza con lo sciopero del 12 dicembre?

È proprio sul no al riarmo che possiamo dare continuità alle grandi mobilitazioni pacifiste delle scorse settimane. Mobilitazioni che hanno visto l’assoluto protagonismo delle nuove generazioni. Un protagonismo giovanile che si ripete ancora una volta, dopo essersi manifestato anche in occasione dei nostri referendum sul lavoro e in quello per la cittadinanza. A dimostrazione che – quando sono in gioco grandi temi come la pace, l’ambiente, la sicurezza e la dignità del lavoro – le ragazze e i ragazzi sono tutt’altro che passivi e rassegnati, come spesso vengono descritti, ma desiderano più di chiunque altro un radicale cambiamento di un modello di sviluppo ormai insostenibile sia dal punto di vista sociale sia da quello ambientale.

Un modello di sviluppo da cambiare, dunque.

Assolutamente sì, anche perché è un modello di sviluppo che qualcuno sta tentando di mantenere in vita fuori tempo massimo, ricorrendo all’eccezionalismo di uno stato di guerra permanente. Noi, anche con lo sciopero generale del prossimo 12 dicembre, ci battiamo per un’agenda radicalmente alternativa, che metta al centro la pace, la giustizia sociale, un lavoro sicuro, libero e dignitoso. E siamo sicuri che nel farlo interpretiamo l’orientamento della grande maggioranza delle cittadine e dei cittadini italiani.