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Dell’università si parla sempre troppo poco, a parte le fantomatiche classifiche degli atenei migliori e dei corsi di laurea più performanti. Eppure si tratta di uno dei “luoghi” chiave del Paese. Lo sa bene il governo che, proprio sull’università, ha trovato uno dei suoi spazi preferiti di azione – più nascosto rispetto alla scuola – in cui veicolare le prospettive che più gli stanno a cuore: precarietà, localismo, liberismo.
Ne sono prova inconfutabile due iniziative legislative messe in campo proprio negli ultimi giorni. La prima riguarda le forme contrattuali del cosiddetto pre-ruolo, l’altra le abilitazioni e i concorsi.
Tornano gli assegni di ricerca
Cominciamo dalla prima. La VII commissione del Senato ha approvato ieri (20 maggio) a maggioranza un emendamento al dl 45/2025 che introduce due nuove figure precarie nella ricerca, nell’Afam e nell’università: da una parte l’Incarico post-doc, un rapporto di lavoro a tempo determinato ma a cui vengono attribuiti anche compiti didattici; dall’altra, l’Incarico di ricerca, un co.co.co senza alcuna garanzia, che, commenta Gianna Fracassi, segretaria generale della Flc Cgil, “ricalca pedissequamente l’abrogata figura dell’assegnista di ricerca, con l’unico vincolo aggiuntivo del limite di sei anni dalla laurea”.
Il decreto riguarda “ulteriori disposizioni urgenti in materia di attuazione delle misure del Piano nazionale di ripresa e resilienza e per l'avvio dell'anno scolastico 2025/2026” ed è la risposta del governo allo stop al ddl 1240 che aveva già tentato di introdurre figure super precarie e senza diritti e che era stato fermato anche grazie a un esposto alla Commissione europea.
Peccato, però, attacca Fracassi, che l’emendamento “contraddice palesemente una milestone del Pnrr, contenuta nella legge 79/2022 che aboliva l’assegno di ricerca e prevedeva un’unica figura post-doc: il contratto di ricerca”. Per la sindacalista si tratta di un’azione gravissima: “È il primo atto legislativo che smonta una riforma del Pnrr attraverso un emendamento in commissione, senza una piena valutazione politica della gravità della decisione intrapresa e, soprattutto, determinando l’effetto di peggiorare la condizione dei ricercatori precari”.
Il tutto avviene a fronte di un’università in cui i precari sono ormai tantissimi e in 40 mila rischiano di essere espulsi dagli atenei e dagli enti di ricerca. Proprio per questo lo scorso 12 maggio la Flc Cgil, insieme a tante associazioni, ha proclamato uno sciopero del settore per chiedere assunzioni, stabilizzazioni e finanziamenti adeguati.
Osserva la dirigente sindacale, “stupisce che prestigiose realtà e personalità sostengano questa iniziativa, che scarica sui soggetti più giovani e più deboli le insufficienze di sistema, condannandoli a una precarietà infinità e allontana atenei e centri di ricerca dalla realtà europea”. In ogni caso “la Flc Cgil continuerà il proprio impegno per rilanciare un’università pubblica e democratica, in cui la ricerca sia considerata pienamente un lavoro”. Quindi “ribadiremo l’esposto già avanzato alla Ue sul ddl 1240 e ci batteremo negli atenei per evitare che questo grave passo indietro sia definitivamente approvato dal Parlamento”.
Si torna ai concorsi locali
L’altro provvedimento, annunciato come al solito con grande enfasi dalla ministra Bernini, consiste in un ddl, licenziato dal Consiglio dei ministri su abilitazioni e concorsi. Il dispositivo che punta alla “revisione delle modalità di accesso, valutazione e reclutamento del personale ricercatore e docente universitario” promette di allineare il sistema di reclutamento universitario ai migliori standard internazionali, puntando sul merito e sulla trasparenza del sistema ma, in realtà, attacca la Flc Cgil, “realizza esattamente l’opposto”.
Di fatto si torna al passato: viene cioè abolita l’abilitazione scientifica nazionale (l’Asn) che attualmente è necessaria per partecipare ai concorsi banditi dai singoli atenei o per passare da ricercatori a professori di seconda fascia. Secondo il comunicato della ministra, l’Asn “nel corso di questi anni si è trasformata in una sorta di diritto alla chiamata in ruolo, con un eccessivo allungamento della validità del titolo abilitativo. Non più un presidio di merito e qualità, quindi, ma un elefantiaco processo di selezione”.
Nella narrazione governativa l’abilitazione nazionale sarebbe insomma diventata una sorta di diritto alla chiamata in ruolo e l’aspettativa legittima di una stabilizzazione, magari dopo tanti anni di precariato, sarebbe di fatto ingiustificata.
Per il sindacato della conoscenza della Cgil non ci sono dubbi: il ddl prepara il terreno per “una nuova stagione di tagli e scarsità delle risorse che questo governo ha inaugurato per l’università e la ricerca”.
Se il ddl diventerà legge, i concorsi torneranno dunque a livello locale – con tutte le possibili storture che conosciamo –, verranno reintrodotte due prove e la discussione delle pubblicazioni scientifiche nonché delle esperienze didattiche. “In pratica – commenta la Flc Cgil –, sono introdotti quei due spazi discrezionali delle commissioni, non a caso eliminati in questi anni, che permettono più facilmente di indirizzare i risultati delle procedure comparative”.
E poi la chicca neoliberista: la possibilità di presentare domande negli atenei è subordinata al possesso di specifici requisiti di produttività e di qualificazione scientifica su proposta dell’Anvur (l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca). Siamo insomma all’indicazione di quei “parametri e soglie che sospingono il mercato dei prodotti scientifici”. Il merito, appunto, declinato in una logica iperproduttiva di impianto liberista.
“Nel complesso - conclude il sindacato di categoria della Cgil - la cifra di questa proposta di legge ci sembra chiara, è un ddl truffa che prova a solleticare la pancia profonda dell’accademia proponendo un sostanziale scambio: l’assenza di risorse, i tagli e la precarizzazione vengono compensati con una maggior discrezionalità nella scelta dei pochi fortunati vincitori dei concorsi”.