Negli ultimi 15 anni abbiamo affrontato tre crisi straordinarie: finanziaria, pandemica e bellica. Gli effetti di questi tre eventi sono stati strutturali e gli impatti drammatici per il lavoro, per i redditi e per le componenti più vulnerabili della società. Non soltanto in Italia ma in tutto il pianeta. Noi però lo abbiamo sentito di più rispetto al resto dell’Europa, un continente che a sua volta ha sofferto maggiormente delle altre economie mondiali. Di fatto il nostro Paese ha rappresentato e incorporato le contraddizioni dell’economia europea, le sue fragilità e i rischi di destabilizzazione politica e finanziaria. Perché?

“Ci sono due lati della medaglia da considerare – spiega Dario Guarascio, docente all’università di Roma la Sapienza -: la fragilità e la precarietà del lavoro, che assume da un punto di vista macroeconomico molte facce, e il declino strutturale dell’economia. Quest’ultimo si traduce in una riduzione della capacità produttiva e tecnologica nei settori a maggior valore aggiunto, una contrazione costante della quota di investimenti e una tendenza al ridimensionamento della capacità dello Stato di generare valore e innovazione, la prevalenza tra le imprese ad adottare strategie competitive che puntano al contenimento del costo del lavoro, la dipendenza dalle importazioni, divari territoriali e generazionali, l’impoverimento dell’offerta di beni pubblici”.

Quello che ne consegue è che l’Italia è meno capace di altre economie europee di generare lavoro, elemento decisivo di debolezza. E quando lo crea, è temporaneo, precario, atipico, poco pagato e caratterizzato da rischi. Una situazione che peggiora a determinate condizioni: se sei giovane, donna, residente nel Mezzogiorno, se hai un titolo di studio non particolarmente elevato. È quella che viene definita occupazione fragile, a cui siamo approdati per via della frammentazione, causa diretta di 25 anni di deregolamentazione del mercato del lavoro.

“In tutta Europa e nella gran parte delle economie del mondo c’è stata una tendenza, dove più diffusa e dove più circoscritta, a introdurre flessibilità e a segmentare – afferma Guarascio -: da un lato i lavoratori più grandi di età e con contratti di tipo standard, dall’altro i giovani, che avrebbero vissuto l’ingresso e l’uscita dal mercato con maggiore facilità, sarebbero stati esposti a più cambiamenti di carriera rispetto al passato. Ecco, questa narrazione si è scontrata con la tendenza generalizzata a indebolire e precarizzare il lavoro, sia per chi godeva di posizioni e contratti tradizionali che per coloro che vi facevano ingresso”.

In pratica, la promessa che la flessibilità avrebbe favorito una maggiore mobilità da un’occupazione a un’altra, in un percorso che avrebbe condotto alla stabilità, non è stata mantenuta. Così si è finito per intrappolare una buona parte della forza lavoro in condizioni precarie. Questa stessa forza lavoro a basso costo è diventata una valvola di sfogo, una soluzione per imprese che popolano settori in declino, che hanno fatto ricorso a forme di sfruttamento relativamente intenso. Dall’altro lato, la precarizzazione ha portato a un indebolimento delle strutture produttive. La conseguenza è stata la crescita delle disuguaglianze socio-economiche, quote sempre maggiori di popolazione che hanno difficoltà a soddisfare le proprie necessità, l’aumento dei working poor.

Un fallimento che secondo l’economista vediamo anche nel quadro più ampio dell’economia europea, dopo che si è deciso che si sarebbero avuti avanzamenti produttivi lasciando i mercati liberi di operare senza vincoli e privatizzando settori dove gli Stati erano presenti: “Abbiamo consentito che fossero trainanti i settori dove le imprese spadroneggiavano e tendevano a basarsi sullo sfruttamento e a pagare il meno possibile i lavoratori – precisa Guarascio -. Il leitmotiv è stato liberalizzare e lasciare che il mercato fosse il motore, la giuda dello sviluppo, ridimensionando quindi il ruolo del pubblico, l’idea dominante è stata che migliori risultati si sarebbero ottenuti lasciando liberi imprese e lavoratori, posti sullo stesso piano”.

Invece non è andata così e i pezzi li stiamo rimettendo insieme soltanto adesso. Se si guarda alle prospettive future, la pandemia sembrava aver prodotto un cambiamento di approccio: sostegno alla domanda e ai redditi, allagamento della platea della cassa integrazione, primi segnali di una vera discontinuità rispetto alle politiche degli ultimi vent’anni. Ne sono nati il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Next Generation Eu, lo strumento di rilancio dell’economia europea dopo il tonfo da Covid-19, il rivitalizzarsi di un dibattito su questi temi.

“Con il Pnrr per la prima volta si è tornati a parlare di politica industriale, si è immaginato un lungo periodo e quindi la necessità di pianificare – conclude Guarascio -, ma è pieno di limiti, di idee sbagliate: si fa poco per rafforzare l’economia e garantire la crescita di nuove imprese, il rischio è che si costruiscano cattedrali nel deserto o scatole che si riempiono con occupazione precaria. Mentre sul fronte delle politiche del lavoro, dei redditi e del welfare c’è bisogno di una rivoluzione copernicana, inquadrata all’interno di un più generale cambio di paradigma circa il modello di crescita e l’impianto di politica economica europeo, il ruolo dello Stato, l’investimento su occupazioni stabili e ben pagate. Infine, risolvere le disuguaglianze prima che si generino, con un rafforzamento del sistema degli ammortizzatori e un potenziamento del sostegno alla domanda”.