In queste ore di cordoglio nel mondo della cultura italiana, per molti un dolore profondo provocato dalla scomparsa di Goffredo Fofi, tantissimi possono avere il privilegio di poter raccontare un incontro, un episodio particolare, un consiglio ricevuto, un rimprovero ben assestato, un buffetto provocatorio, una battuta tagliente, una carezza consolante. Questo perché Goffredo Fofi non si è mai risparmiato, non si è mai tirato indietro, non ha mai avuto quella spocchia che spesso altri cosiddetti intellettuali tendono ad avere, soprattutto nei confronti dei più giovani, ora che di intellettuali se ne scorgono sempre meno, e non a caso l’appellativo sia rispuntato fuori un po’ ovunque proprio con la sua morte. Così cado nella tentazione anch’io legandomi ai due estremi, la prima e l’ultima volta insieme a Goffredo Fofi.

Nell’estate del 1998 ero appena entrato nella squadra dell’editore minimum fax, fresco di laurea, proiettato verso un dottorato in italianistica. In quel periodo la casa editrice pubblica “Lo Straniero”, la rivista voluta da Fofi per insistere su un percorso letterario al di fuori dei circuiti consueti, così chiamata per rendere omaggio all’amato Albert Camus. Giunto in redazione per chiudere il prossimo numero, vengo presentato al suo ideatore come giovane di belle speranze, pronto a lavorare laddove ci sia da imparare, volenteroso e svelto nell’apprendere i primi rudimenti dell’editoria, dai segreti del magazzino alla creazione di eventi, in attesa di sperimentare eventuali velleità di scrittore. Uno sguardo rapido, dritto nei suoi inconfondibili occhi, poi la frase sferzante: “Ricorda, mio caro, che non si scrive per vincere il Premio Strega”.

Pochi mesi fa mi trovavo nella redazione di un altro editore, con cui parlavo del nostro libro appena pubblicato, soddisfatti del lancio e dei primi riscontri e riflettendo, ironia della sorte, se accettare o meno la proposta di partecipazione all’ultima edizione del Premio Strega, comunicata in quei giorni. All’improvviso nell’atrio spunta Goffredo Fofi, l’irrinunciabile bastone in legno, il solito sorriso avvolgente. Pochi e affettuosi convenevoli, un accenno alla Piccola Biblioteca Morale “collana di pensiero radicale”, poi ancora una volta lapidario: “Non scordarti che prima di tutto sei un insegnante”. Per qualcuno avrebbe potuto suonare offensivo; per me, data la provenienza, rimane e rimarrà uno dei più bei riconoscimenti ricevuti.

Ecco, ciascuno ha avuto il suo Goffredo Fofi, per un giorno o per una vita, ma per tutti sarà difficile raccogliere la sua eredità, un’eredità culturalmente sterminata, testimoniata dagli infiniti libri scritti e suggeriti, le numerose riviste fondate, gli articoli firmati e gli interventi pubblici, l’attività disseminata ovunque nella storia del secondo Novecento e in questo primo quarto di secolo, dalla Torino dove fotografò la condizione degli operai immigrati della Fiat in maniera tanto cruda da essere rifiutato da Einaudi (arrivò subito la proposta di Feltrinelli), alla Sicilia dove arrivò appena maggiorenne schierandosi al fianco di Danilo Dolci, condividendone idee e militanza, vocabolo da lui ferocemente rifiutato nell’accezione comune.

E ogni eredità, in quanto tale, presume degli eredi: ma restare fedeli alla lezione di Fofi, alla sua convinzione di come si deve essere presenti e operativi all’interno del grande circo della cultura letteraria, editoriale, giornalistica, cinematografica, teatrale, scolastica del nostro Paese, resta esercizio di complicata, e sempre più complicata, attuazione. Anche perché Goffredo Fofi il suo erede lo aveva individuato, lo aveva scelto, proprio negli anni de “Lo Straniero”: si chiamava Alessandro Leogrande. E la voce rotta, le lacrime trattenute ai funerali di un altro intellettuale, strappato via in un lampo da un destino vigliacco, anche quelle, come lui, non saranno mai dimenticate.