“Sul lavoro ci sono obiettivi positivi, ma ancora troppe lacune. L’idea di puntare sulla crescita dell’occupazione, soprattutto quella delle donne e dei giovani, e di ridurre il gap tra Nord e Sud è sicuramente una scelta giusta, ma nel Piano nazionale di ripresa e resilienza del governo, ci sono buchi clamorosi". Questo il giudizio sintetico della segretaria confederale Cgil Tania Scacchetti alla Missione 5 del Pnrr dedicata alle politiche attive del lavoro, evidenziando "l’assenza di un qualsiasi riferimento all’obiettivo della piena e buona occupazione e la mancanza di un discorso sulla revisione delle tante tipologie contrattuali del mercato del lavoro. Il rischio evidente è una ripresa senza occupazione”.

Scacchetti approva anche "la scelta di avviare una lotta al lavoro sommerso", ma rimarca che "le azioni conseguenti andrebbero messe in campo subito, non tra cinque anni. E poi tutte queste belle politiche cadranno nel vuoto se non si avvierà subito la riforma degli ammortizzatori sociali". Riguardo le imprese, per la segretaria confederale Cgil dovrebbero "smetterla di invocare la libertà di licenziamento come panacea di tutti i mali. Ed è ora anche di smetterla con le fake news sui giovani che non vogliono lavorare perché hanno il reddito di cittadinanza".

PODCAST / La scelta sul reddito di cittadinanza

Segretaria, queste lacune del Pnrr e la scelta discutibile sui tempi della lotta al sommerso sono il segno di una debolezza generale della politica del lavoro del Governo Draghi?

Sicuramente sarebbe stato meglio partire dall’analisi dei cambiamenti quantitativi e qualitativi dell’occupazione, come base per una crescita dell’occupazione di qualità. C’è poi da segnalare uno degli obiettivi della Missione 5: la lotta al lavoro sommerso. È un fatto positivo, che è frutto anche delle nostre pressioni, perché nelle prime bozze del Pnrr non c’era. Si tratta di una vera emergenza nazionale: in Italia il lavoro irregolare rappresenta circa il 15% di tutta l’occupazione, con un'incidenza sul Pil intorno al 4,5%. Il difetto di questa scelta sta però nei tempi, visto che la realizzazione di questi obiettivi è spostata verso la fine del quinquennio dei progetti. Un orizzonte temporale troppo spostato in avanti.

Per quanto riguarda le risorse stanziate sulle politiche attive cosa si può dire? saranno sufficienti?

La scelta è stata molto netta e oggettivamente supera un ritardo storico che abbiamo in Italia. Le politiche attive sono una straordinaria fonte di ripartenza, ma devono poggiare su una struttura dell’offerta del lavoro solida. Se non c’è richiesta di lavoratori, come spesso accade in molte parti del Paese, è difficile che le politiche attive – da sole – riescano a mobilitare una crescita. La scelta strategica che si è fatta nel Piano è quella di scommettere sul potenziamento di tutte quelle politiche che servono per aumentare la possibilità di occupazione e la dotazione individuale di competenze e formazione, rendendo più facile l’interconnessione tra domanda e offerta di lavoro.

Si punta, dunque, a rendere più forti i lavoratori...

Sì, certamente. Ma all'interno di un sistema in cui le transizioni e la discontinuità lavorativa saranno sempre più la cifra del mercato del lavoro. Questa strategia, basata su una quantità importante di risorse e sul miglioramento generale del sistema dell’impiego e delle reti tra soggetti pubblici e privati, sarà vana se non si lega alle altre azioni. L’obiettivo è importante, ma da solo non è sufficiente. A fianco di quest'investimento ci deve essere, da un lato, una scelta sull’occupazione di qualità, quindi un intervento sul mercato del lavoro che aggredisca tutte le forme di precarietà; dall’altro, la riforma delle politiche attive deve essere accompagnata dalla riforma degli ammortizzatori sociali. 

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Il sindacato si è battuto, e continua a battersi, per affiancare alla riforma delle protezioni sociali percorsi di formazione permanenti, essenziali per aiutare le persone ad affrontare le transizioni da un posto di lavoro all’altro. Il Pnrr risponde a queste esigenze?

Nel Pnrr si fa un investimento forte sulla formazione e questa decisione è sicuramente il frutto delle nostre mobilitazioni. Da tempo insistiamo sul diritto all’apprendimento permanente e sulla formazione come diritto soggettivo, ma insistiamo molto anche perché sia data la possibilità ai lavoratori di riqualificarsi non solo nei periodi di transizione da posto a posto ma anche nei singoli luoghi di lavoro, perché i cambiamenti in corso implicano un aggiornamento costante delle competenze professionali.

Sia nella Missione 4 sia nella Missione 5 alla formazione è stato dato ampio spazio.

Vero, infatti si prevede anche un 'piano nazionale delle competenze', oltre al rafforzamento del 'Fondo nuove competenze' e alle misure di garanzia di occupabilità per i lavoratori. Condividiamo dunque questa centralità della formazione, ma per funzionare dovrà essere certificata e spendibile dai lavoratori, oltre che diventare strumento concreto di esercizio dei diritti di cittadinanza.

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Dagli obiettivi indicati nel Pnrr e dalle varie Missioni sembra emergere una nuova visione del ruolo del pubblico in economia. Dopo gli anni caratterizzati dall’ultraliberismo si torna allo Stato imprenditore, o almeno a uno Stato che funziona?

Questa è una grande scommessa. L’idea di invertire una tendenza alla privatizzazione anche dei servizi per l’impiego è partita già da qualche anno. Si è fatta largo la consapevolezza della necessità di un forte governo pubblico nell’ambito delle politiche del lavoro. Non so però se tutto il sistema-Paese sarà all’altezza di questa sfida, visto che nel mercato del lavoro conta ancora tantissimo l’informalità dei rapporti. Si va avanti a conoscenze personali, chi ha gli strumenti va avanti.

Questa è una scommessa anche per le imprese....

Le aziende, infatti, continuano a parlare molto di politiche attive. Ma queste funzioneranno solo se la domanda ricomincerà a tirare. Il problema quindi non è la libertà di licenziare, ma la volontà di assumere da parte delle imprese. Il nuovo schema del sistema per l’impiego potrà funzionare solo se anche le imprese e tutti i soggetti economici si affideranno al nuovo sistema pubblico e inizieranno a riconoscere ai lavoratori le loro effettive competenze e i livelli di qualificazione professionale.

Per quanto riguarda la novità degli strumenti di certificazione introdotti nel Piano, che giudizio date?

Il sistema di garanzia di occupabilità dei disoccupati (Gol) deve diventare un acronimo riconoscibile, come le altre misure. Si deve superare prima di tutto l’immagine negativa dei servizi per l’impiego, a partire dalla riforma dell'Anpal. Questi nuovi strumenti possono accompagnare i lavoratori, ma registriamo la mancanza di un confronto diretto con il governo sulle politiche attive. L’altra questione sulla certificazione della parità di genere è sicuramente importante, ma il tema vero deve essere l’aumento effettivo della occupazione femminile e delle misure utili alla loro permanenza nel mercato del lavoro. E come superare il gap di qualità del lavoro tra uomini e donne. Dobbiamo discutere con le imprese quali sono gli ostacoli che impediscono la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Con il Piano qualcosa si muove, ma è ancora poco. E non può essere scollegato dal rafforzamento del sistema di welfare che sostenga le donne. 

PODCAST / Superare il gap di genere

Dai dati statistici sul mercato del lavoro si capisce che l’Italia non si è mai ripresa dalla crisi del 2008. Che succederà ora dopo la pandemia?

Anche se ci sono stati segnali di ripresa, il mercato del lavoro italiano non è riuscito a tornare ai livelli che caratterizzavano la situazione prima della grande crisi finanziaria. La tendenza degli ultimi 25-30 anni è stata quella di ridurre il lavoro a tempo indeterminato e a tempo pieno per sostituirlo con lavoro precario. Una precarietà doppia perché riguarda sia le tipologie di lavoro sia le ore lavorate. Così oggi c’è una polarizzazione tra quelli che lavorano molte ore alla settimana, con ore di straordinario stabilmente consolidate nell’orario di fatto, e quelli che non lavorano abbastanza per garantirsi una vita dignitosa.

A questo si aggiunge la questione dei licenziamenti...

Tema su cui le imprese hanno un approccio del tutto ideologico, ed è per questo che non accettano una proroga del blocco fino all’autunno. Ma soprattutto c’è questa idea che la libertà di licenziamento sia uno strumento di crescita e miglioramento, come se licenziare fosse indispensabile per vincere la sfida della ripresa. Per questo deve intervenire il governo e indicare un’altra strada. Lo vediamo anche dalle polemiche tutte strumentali sulla mancanza di risposta dei giovani ad alcune offerte di lavoro. È solo una campagna mediatica fondata su nessun dato oggettivo. La realtà è che nel corso degli anni c’è stato un grande impoverimento del lavoro, dalle tutele ai riconoscimenti economici, soprattutto in alcuni settori. Ci sono stati concorsi e richieste di lavoro per cui si sono presentate migliaia di persone per pochi posti e la notizia non ha creato alcuno scandalo. Se il lavoro è quello di 14 ore al giorno, senza garanzie e tutele, allora il rifiuto è un segno della ripresa della coscienza dei diritti.