“Con il superamento delle partecipazioni statali e le privatizzazioni, in Italia abbiamo smesso di fare politiche industriali. Avevamo aziende riconosciute e affermate in tutto il mondo, oggi siamo in pieno declino industriale”. A dirlo è Pino Gesmundo, segretario confederale della Cgil, che il 13 marzo a Verona interverrà su questi temi alla tavola rotonda “Nelle due grandi transizioni”.

“L’idea, sbagliata, che bisognava togliere lacci e lacciuoli alle imprese e che il mercato avrebbe garantito il benessere nazionale - continua Gesmundo - si è rilevato un errore grossolano”.

La legge di bilancio del Governo Meloni contiene un’inversione di tendenza o questa mancanza continua?

Purtroppo, l'attuale governo continua a lavorare nella stessa direzione: non disturbare chi produce, erogare finanziamenti a pioggia senza condizionalità e nella totale assenza di ambizione di guidare il settore industriale italiano ad affrontare la transizione digitale e quella energetica. Le imprese, da sole, non possono farcela. O meglio il grosso delle imprese, quelle piccole, medie e medio-grandi, non riusciranno a fare gli investimenti necessari per affrontare i cambiamenti epocali che abbiamo di fronte. Non è un caso che l'esecutivo non commenti mai i continui cali della produzione industriale e non abbia strumenti per affrontare le crisi che si stanno aprendo. Siamo in pieno declino industriale e la politica se ne occupa poco e male.

La transizione energetica e ambientale è la prima grande esigenza del Paese. Le scelte del governo, come ad esempio il “decreto energia”, favoriscono questo passaggio?

No, o meglio, solo in misura minima e del tutto insufficiente ad affrontare i cambiamenti. Sarebbe necessario programmare lo sviluppo di energie rinnovabili e conseguentemente agire sulle imprese per riconvertirle sulle nuove filiere produttive necessarie. Le poche grandi imprese “pubbliche” rimaste (Enel, Eni) o le multiutility che si sono sviluppate al Centro-Nord del Paese (Hera, A2A Iren, Acea) dovrebbero diventare le capofila di questo cambiamento, aiutando le imprese private a ricollocarsi sulle nuove produzioni.

Un esempio?

Se l’idrogeno sarà un pezzo del futuro, dovremmo predisporci a produrre elettrolizzatori per generare idrogeno verde, oppure se la mobilità si dovrà spostare sull’elettrico, dovremmo riposizionare la filiera produttiva in quell’ambito. Invece nulla. Solo proclami ideologici sulla difesa del made in Italy, senza una strategia e senza una visione. Si continuano a usare le imprese pubbliche per fare immensi utili, tralasciando gli investimenti necessari e affossando le imprese private. Quello che ci stupisce è la scarsa reazione del mondo delle imprese private.

Appunto, cosa stanno facendo le aziende private?

Sono ovviamente consapevoli delle difficoltà presenti, ma si accontentano di gestire la situazione massimizzando i guadagni senza nessuna prospettiva per il futuro. Sarebbe invece necessaria una grande intesa tra imprese e mondo del lavoro per imporre politiche che evitino il declino del Paese e offrano una prospettiva certa alle future generazioni. La transizione, se vuole trovare consenso e appoggio da parte dei cittadini, deve essere giusta, evitando di far pagare il prezzo alle fasce più deboli, altrimenti continueremo ad alimentare malcontento, antieuropeismo e populismo. Quanto avvenuto con la crisi degli agricoltori è un segnale da non trascurare.

La transizione digitale è l’altra grande trasformazione dei tempi presenti. Una transizione che andrebbe indirizzata e gestita, non lasciata alle sole leggi di mercato. Stiamo andando in questa direzione?

Qui siamo in una condizione ancora più grave, e probabilmente irrecuperabile. La sbagliata privatizzazione di Telecom e le scelte attuate da questo governo di separare la rete dalle tecnologie che consentono la trasmissione di voce e dati, e dai servizi, porteranno il nostro Paese a sparire dal mondo delle telecomunicazioni, diventando solamente un mercato per il resto d’Europa. La difficoltà del settore telecomunicazioni, alti investimenti per accompagnare le nuove tecnologie associato a bassi profitti determinati da un eccesso di offerta e di concorrenza, ha portato l’Europa a decidere il consolidamento delle imprese a livello europeo. Solo in questo modo riusciremo a competere e tenere testa ai colossi americani e asiatici. Il consolidamento sarà guidato dalle ex aziende monopoliste statali (gli incumbent), il cui controllo a livello europeo è ancora in mano pubblica.

L’Italia parteciperà a questo processo?

Purtroppo no. E questo perché ci arriverà con un’azienda non più integrata verticalmente (rete e servizi) e non in grado di sostenere, da sola, gli ingenti investimenti necessari. Così, con buona pace del governo sovranista, il nostro Paese diventerà un mercato per le imprese straniere esattamente come già avvenuto per il settore del trasporto aereo dove la nostra compagnia Ita vale 1/10 di quella tedesca o francese. A questo si deve aggiungere la sfida imposta dall’intelligenza artificiale. Qui gli investimenti materiali non saranno elevatissimi ma sarà, invece, necessario un investimento formativo e di competenze enorme. Le piccole e medie imprese italiane, lasciate sole, non riusciranno ad agganciare le nuove tecnologie.

Queste due transizioni avranno un notevole impatto sul Paese. L’Italia però è segnata da un forte squilibro economico e sociale, con un Mezzogiorno che fatica a connettersi con le aree del Centro-Nord. Cosa sta facendo l’esecutivo per colmare questo divario?

La risposta è semplice e breve: nulla. Anzi, con le sue politiche determinerà un allargamento della forbice tra Nord e Sud. Anche in questo caso, le politiche industriali realizzate dalle aziende partecipate avevano prodotto insediamenti industriali importanti nel Mezzogiorno. La fine di quell’epoca e la scelta del laissez faire e dello strumento degli incentivi a pioggia ha ridotto drasticamente gli investimenti al Sud. La causa è semplice: se mi limito a dare soldi alle imprese, e le imprese stanno in larga parte nel Nord del Paese, io sto decidendo di investire più soldi nell’area che ne ha minor bisogno, contribuendo ad aumentare il divario. Questo è esattamente quello che è successo negli ultimi 25 anni con buona pace di tutti i proclami che continuiamo a sentire. A questo fenomeno che è già in corso se ne aggiungerà uno nuovo.

Quale, in particolare?

Nel Sud sono concentrate moltissime imprese legate ai combustibili fossili. Queste nei prossimi decenni sono destinate a chiudere la loro produzione, perché la scelta di neutralità carbonica adottata dall’Europa porterà quei combustibili a non essere più utilizzati. Se non si lavora da subito per trasformare il Mezzogiorno nell’hub delle energie rinnovabili, nel centro di produzione dell’idrogeno e della filiera degli accumulatori o della produzione delle nuove filiere produttive necessarie al cambiamento, si condannerà tutto il territorio. E se vogliamo che il nostro Paese cresca abbiamo bisogno di far crescere il Mezzogiorno, altrimenti questo non sarà mai possibile. Oltre, ovviamente, a dover fermare l’emorragia di giovani che ormai da decenni quel territorio sta subendo. Se a questa miope politica economica e industriale associo la scellerata idea dell’autonomia differenziata che il governo sta portando avanti, la condanna per il Sud del Paese è definitiva.

Mercoledì 13 marzo si tiene anche la riunione del G7 Industria. Cosa dovrebbe uscire da quel vertice? E come l’Europa può tornare a essere protagonista dello sviluppo?

Dal G7 ci aspettiamo solamente la conferma di un percorso che imbocchi con decisione la via della decarbonizzazione. I cambiamenti climatici in atto ci hanno dimostrato che non c’è più tempo e che non possiamo fallire gli obiettivi di contenimento dell’aumento della temperatura entro un grado e mezzo. E forse è già tardi. Dall’Europa, invece, molto di più. Le due transizioni in atto stanno portando a una competizione tra continenti in grado di riposizionare completamente l’apparato produttivo. Gli americani hanno dimostrato di esserne consapevoli inserendo nell’economia centinaia di miliardi per guidare a accelerare la transizione verso le nuove tecnologie. L’Asia è nella stessa condizione, facilitata anche da poteri di indirizzo molto maggiori rispetto ai modelli democratici europei.

E l’Europa?

Il nostro continente, che ha fissato gli obiettivi di decarbonizzazione, si ostina a non voler realizzare politiche industriali comuni, lasciando i singoli Stati in competizione tra di loro. In questo modo nessun Paese europeo ci riuscirà. Nemmeno la Germania, considerata sino a poco tempo fa locomotiva dell’Europa, aiutata dal basso prezzo del gas russo e dallo sfogo sui mercati asiatici, ci riuscirà. È necessario che l’Europa guidi attraverso politiche industriali comuni il riassetto dell’economia del nostro continente. Per farlo sono necessari ingentissimi investimenti, quantificati in oltre 500 miliardi di euro. In questo caso si tratta di realizzare un fondo sovrano europeo che aiuti a spostare l’ingente ricchezza privata presente nel continente dalla finanza all’economia reale. Solo realizzando risorse comuni saremo in grado di competere con i continenti asiatico e americano e non perdere la sfida in corso. D’altronde è ormai evidente che i rischi per l’Europa sono immensi. Il Pil qui prodotto rispetto a quello degli altri continenti sta già diminuendo da decenni e non dobbiamo dare per scontato che il nostro continente resterà centrale rispetto all’economia del mondo. Per farlo è necessario che gli Stati comprendano la portata della sfida in corso e accettino di giocare la partita.

E quindi cosa dovrebbe fare il nostro Paese?

Anche in Italia, dove viviamo una condizione economica che potremmo riassumere con la battuta “il convento è povero ma i frati sono ricchi”, visto l’enorme debito pubblico e la ristrettezza finanziaria che impedisce investimenti mirati, è necessario creare un’Agenzia per lo sviluppo che operi da fondo sovrano nazionale, provando a indirizzare le ingenti risorse rappresentate dai fondi pensione e dai risparmi privati dalla finanza all’economia reale. Non farlo significherà alimentare una sfiducia nelle istituzioni, un populismo antieuropeo crescente che ha già dimostrato di non avere nessuno strumento per invertire la rotta, alimentando una sfiducia dei cittadini che metterà a rischio la tenuta democratica del Paese.