C’è un legame strettissimo tra la medicina territoriale e i diritti delle donne e quel legame è rappresentato dai consultori. Se i consultori chiudono o vengono privati delle risorse umane e finanziarie per poter offrire servizi adeguati, sono le donne a subirne le conseguenze.

Anche come conseguenza dei costanti tagli alla sanità pubblica, in questi ultimi anni i consultori pubblici italiani hanno subito forti ridimensionamenti.  Anche, ma non solo. Perché se storicamente la nascita dei consultori è legata alle battaglie per l’autodeterminazione e i diritti delle donne, oggi che quei diritti sono sotto attacco, i consultori rischiano di diventare il cavallo di troia delle formazioni ultracattoliche antiabortiste che ottengono sportelli al loro interno o, grazie a finanziamenti anche pubblici, avviano consultori privati che fanno concorrenza. A consentirlo il combinato disposto autonomia regionale/giunte regionali di destra.

Dopo Ungheria e Polonia, anche in Italia è partito l’attacco delle destre neocon ai diritti delle donne e a difesa e promozione di un modello di società radicalmente conservatore, patriarcale, di cui la famiglia tradizionale è nucleo fondante. La prima eclatante manifestazione di forza di questi movimenti in Italia è stato il 13° Congresso mondiale delle famiglie organizzato a Verona nel 2019 al quale, oltre a esponenti politici della destra radicale cristiana integralista di tutto il mondo, parteciparono tre ministri dell’allora primo governo Conte: Matteo Salvini, Lorenzo Fontana e Marco Bussetti, oltre a Giorgia Meloni e al senatore Pillon della Lega.

Dopo quella prova di forza, associazioni e movimenti No-Choice che si fanno chiamare Pro Vita - ma in realtà sono semplicemente contro le libertà e i diritti civili conquistati a partire dagli anni Settanta -, si sono fatti sentire soprattutto attraverso le affissioni e la pubblicazione di manifesti contro l’aborto in diverse città italiane.

Ma la vera svolta è arrivata la scorsa primavera e ancora una volta dal Veneto, dove a maggio è stata approvata una legge regionale che dietro una serie di interventi a sostegno della famiglia e della natalità predisposti stornando risorse da fondi nazionali destinati ad altre misure di welfare, introduce una serie di percorsi privilegiati per gli organismi di rappresentanza delle famiglie che vengono selezionati dalla giunta regionale.

E già si intravede un chiaro favore per le associazioni No-Choice e ultracattoliche. Lo schema della legge è la premialità per figli a mezzo assegni e non misure che creino lavoro e strumenti per le donne: per esempio, un incremento dei servizi per i bambini da 0 a 6 anni o nidi o l’abbattimento delle rette per i nidi. Perché l’obiettivo sotteso non è la promozione di un modello familiare paritario ma esattamente il contrario: le donne restino a casa.

Non è passato molto tempo e anche in Umbria – regione a guida leghista già balzata agli onori della cronaca per l’attacco all’aborto farmacologico poi stoppato dal ministro Speranza -  è stato presentato un disegno di legge analogo. Sostegno e promozione per le associazioni familiari e del privato sociale che sostengono “la famiglia”, aiuti economici per i figli, promozione di misure di garanzia della bigenitorialità in caso di separazione e anche risorse alle strutture che si occupano di intervenire nei casi di separazioni conflittuali.

Anche in questo caso, come per la legge veneta, si potrebbe pensare che si tratta di misure positive e di sostegno alle donne e ai figli coinvolti nelle separazioni, se non fosse che quelle norme sembrano scritte proprio per andare incontro al sistema descritto nel ddl Pillon il quale, non bisogna dimenticare, risiede in Umbria: un sistema punitivo nei confronti delle donne che vogliano separarsi che usa i figli come strumento di ricatto.

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La scorsa settimana, proprio come in un domino a guida neocon, anche nelle Marche, in Calabria e in Abruzzo si sono verificati episodi di grave attacco ai diritti delle donne e alle loro libertà, sia attraverso circolari che contravvenendo le disposizioni ministeriali esortano le strutture territoriali a impedire l’aborto farmacologico al di fuori delle strutture ospedaliere, sia attraverso dichiarazioni e manifestazioni contro l’accesso all’ Interruzione volontaria di gravidanza, da parte di esponenti politici e membri di associazioni No-Choice. Anche ad un occhio poco esperto, il disegno complessivo appare limpido: emanare, partendo dalle regioni a guida leghista o FdI, norme apparentemente a favore delle famiglie per realizzare interventi che minano la legge 194, l’autodeterminazione e i diritti delle donne.

Il progetto di per sé già preoccupante si somma a due criticità già forti nel nostro Paese: l’elevato numero di obiettori di coscienza che in alcuni territori rende davvero complicato l’accesso all’Ivg e il generale sottodimensionamento dei consultori. Nei giorni scorsi il settore welfare della Cgil insieme all’Ufficio politiche di genere ha avviato una riflessione su quanto sta accadendo coinvolgendo territori e strutture per mappare le situazioni e pianificare una serie di iniziative per tornare alla centralità dei consultori pubblici, presìdi di salute territoriale, e in difesa della legge 194 e dei diritti delle donne. E non solo di loro: è bene non dimenticare mai che il grado di salute di una democrazia si valuta sulla libertà delle donne.