Due anni esatti dall’esplosione del conflitto in Ucraina, dall’aggressione di Mosca a Kiev. Quasi cinque mesi dal 7 ottobre “nero” in Medio Oriente, dall’esplosione di una nuova, feroce guerra tra Israele e Hamas. Oggi il movimento per la pace italiano torna in piazza per chiedere il cessate il fuoco in Ucraina e in Palestina, per esigere che si fermino “la criminale follia di tutte le guerre, la corsa al riarmo, la distruzione del Pianeta”.

C’è anche la Cgil in questa rete, naturalmente. Con Salvatore Marra, coordinatore dell’Area politiche internazionali della confederazione, proviamo a fare il punto su una delle stagioni più difficili della storia globale recente: “Le notizie che arrivano dal fronte ucraino sono pessime. Quello che ci viene detto da alcune Ong presenti sul terreno è che a Kherson si preparano per un invasione vera e propria”. Non è un dettaglio da poco che l’ultimo numero di Limes, il mensile diretto da Lucio Caracciolo, proponga come titolo: Stiamo perdendo la guerra. Ma stiamo perdendo anche la pace.

Due priorità: cessate il fuoco e aiuti umanitari

“L'appello della rete Europe For Peace e della coalizione Assisi pace giusta è stato sottoscritto da tantissime associazioni con le quali da mesi ci battiamo per la pace. Abbiamo determinato con chiarezza quali sono le ragioni che ci portano in piazza”, esordisce Marra. “Ogni territorio si è organizzato secondo le sue particolari esigenze per affermare due cose fondamentali. La prima è continuare a dire ai governi e alle organizzazioni multilaterali che deve essere fatto ogni sforzo possibile per fare tacere le armi. In Ucraina e a Gaza, sicuramente, ma anche in tutte le aree di conflitto del mondo”.

“La seconda - prosegue Marra - riguarda gli aiuti umanitari a chi in questo momento sta subendo le tragiche conseguenze delle guerre in corso. A partire dal fatto che chiediamo con urgenza che nella situazione di Gaza siano fatti entrare più aiuti possibile, perché la popolazione è in una situazione di assedio. Ecco: cessate il fuoco e aiuti umanitari sono le prime due richieste forti che vengono avanzate durante queste due giornate dalla Cgil insieme a una più grande coalizione di associazioni, realtà della società civile, e in alcuni casi anche di partiti politici”.

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Un ordine mondiale in assetto di guerra

Cessate il fuoco a partire da Ucraina e Gaza ma, chiarisce Marra, cessate il fuoco “vale anche per il Sudan, vale per lo Yemen, vale per quello che sta succedendo in Nagorno-Karabakh, e in tutte le aree di tensione in questo momento”. La verità è che “non c'è continente libero da conflitti. Pensiamo alla regione mediterranea, a quello che sta accadendo nei Balcani, in particolare in Kosovo. E poi la Libia, la Tunisia, il colpo di Stato in Niger, tutta la regione dell'Africa occidentale, il Sudan, il Tigray, la Somalia. Gli stessi 27 Stati dell'Unione Europea partecipano - con l’invio di armi - al conflitto in Ucraina e in Medio Oriente. Siamo tutti parte del conflitto”.

La pace è il fondamento del sindacalismo internazionale

In questa situazione, il punto fermo dal quale la Cgil non si muove è il fatto che “non bisogna disinvestire dal multilaterale - spiega Marra -, perché il multilaterale è il luogo dove il conflitto viene prevenuto e non solo gestito. È il lascito della tragedia della Seconda guerra mondiale, e non possiamo permetterci di abbandonarlo. L'Organizzazione internazionale del lavoro nasce insieme alle Nazioni Unite da quel drammatico momento storico per il genere umano. L'articolo 1 della Costituzione dell'Oil stabilisce che una pace duratura può essere ottenuta solo se c'è giustizia sociale. Se rinunciamo a questo, rinunciamo ai fondamenti democratici del sindacalismo internazionale”.

La crisi del multilateralismo

Ma se c’è un filo rosso che lega tra loro questi conflitti, in particolare l’Ucraina e il Medio Oriente, è proprio “la crisi del multilateralismo. Il risultato non casuale delle politiche estere dei governi, in particolare di estrema destra, che hanno minato alle basi il multilateralismo e attaccato i fondamenti del diritto internazionale, anche dal punto di vista economico - chiarisce il responsabile della Cgil -. Uno degli attacchi più forti è stato la delegittimazione e il taglio dei finanziamenti all'Onu da parte di Trump”.

“In questa situazione gioca un ruolo anche quanto accade nella Nato - prosegue Marra -, l'adesione di ulteriori Stati a Oriente, la discussione in corso sull’ingresso dell'Ucraina, il ruolo cruciale della Turchia. E non dimentichiamo il ruolo del governo Netanyahu, che ha rifiutato, ad esempio, di applicare le sanzioni alla Russia. Insomma, ci sono fattori esogeni, rispetto al conflitto in Ucraina e in Medio Oriente, che vanno oltre queste due regioni e che pesano molto”.

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La debolezza di Ue e Stati Uniti

In tutto ciò risalta con maggiore evidenza la debolezza della Ue, che né sulla situazione in Ucraina né sul Medio Oriente riesce a incidere come dovrebbe. Questo perché “uno dei vulnus del progetto europeo - sottolinea Marra - è la mancanza di una vera strategia di politica estera. Perché i trattati in questo momento non lo consentono ed è materia delegata agli Stati nazionali. Così abbiamo una cacofonia di Stati, ognuno con una propria voce. In questo modo l'Unione europea è debole e subisce i trend stabiliti da altri, inclusi gli Stati Uniti, che sono però a loro volta estremamente indeboliti, e non riescono più a esercitare un ruolo nell’ordine globale, nel bene e nel male, come hanno fatto sino a qualche tempo fa”.

Il riarmo uccide il welfare e l’ambiente

Gli Stati dunque sono tornati a fare da sé. Si affidano a soluzioni bilaterali. E si armano. Un elemento che desta la preoccupazione del sindacato: “La questione del riarmo in questo momento - spiega ancora Marra -, a livello europeo e globale, significa due cose. La prima: si tolgono investimenti al welfare, cioè alla qualità di vita e lavoro delle persone. I tagli al bilancio per finanziare il riarmo sono fatti o extra budget, alla tedesca, ma è rarissimo perché le regole europee non lo consentirebbero, oppure dentro al budget, quindi rinunciando appunto alla spesa sociale”.

Il secondo punto - prosegue Marra - “ha a che vedere con le ambizioni climatiche globali. Le armi sono infatti il terzo fattore inquinante a livello mondiale. Come pensiamo di raggiungere la neutralità climatica e gli obiettivi degli accordi a tutela dell’ambiente se continuiamo a investire in qualcosa che lo devasta, distrugge, degrada e porta alla distruzione del pianeta?”.

Un’economia di guerra

Per il responsabile esteri della Cgil stiamo vivendo a tutti gli effetti in un'economia di guerra: “Abbiamo subito ripercussioni pesanti in termini di inflazione, sulle catene di fornitura globali, quindi per l'Italia e per l'Europa le conseguenze della guerra sono già tangibili ed evidenti. La Cgil è concentrata sui rinnovi contrattuali per recuperare l'inflazione, lo stiamo facendo perché i conflitti hanno portato a un'esplosione dei prezzi. E alla speculazione che non è stata combattuta né dall'Unione europea né dai Paesi membri tramite una tassazione sugli extra profitti del militare, del farmaceutico e del bancario”.

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Sarà il tema dell’anno elettorale

Inoltre, ci troviamo in un contesto per l'Italia molto particolare. “Per l’Italia e per l'Europa - precisa Marra -. A giugno avremo le elezioni europee. E l’Italia è il Paese che ospita il G7”. Marra è convinto che la guerra inciderà sulle prossime elezioni europee (e americane): “L'opinione pubblica è stanca. Anche in Italia. È vero che non abbiamo i bombardamenti, ma incrociamo tutti i giorni i profughi ucraini, abbiamo aziende che hanno chiuso perché a causa del conflitto hanno perso commesse. Abbiamo l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e l’aumento della povertà assoluta”. 

Un virus che si chiama guerra

Quindi la percezione della guerra c'è e si farà sentire nella tornata elettorale. “Non necessariamente con slogan e temi immediati come ‘pace’, ‘guerra’, ‘democrazia’ ‘diritti umani’ - riflette Marra -. Ma con parole come ‘inflazione’, ‘povertà’, ‘emigrazione forzata’. È come quando ti curi il mal di testa e ti concentri sui sintomi e non sulle cause. La nostra base, i nostri delegati, i nostri iscritti percepiscono nella loro vita quotidiana i sintomi dovuti a un virus che si chiama guerra”.

“Non dividiamoci sulle parole”

Tornando al conflitto in Medio Oriente, per la Cgil “non è il momento di dividersi sulle parole - ragiona Marra -. È invece il momento di dire che la situazione a Gaza è una tragedia umanitaria e che la popolazione sta pagando un prezzo altissimo. Il caso di cui si sta occupando la Corte di Giustizia Internazionale è fondato sulla presunta violazione della convenzione ONU sul genocidio. Ne seguiremo gli sviluppi. In questo momento dobbiamo provare tutti gli strumenti diplomatici per fermare la tragedia umanitaria in corso, il massacro di civili, bambini e donne inclusi”. 

“Tra l’altro - aggiunge Marra - la Cgil è una fra le poche organizzazioni sindacali, forse l'unica per ora almeno in Europa, che abbia avviato una sua raccolta fondi per aiuti umanitari a Gaza. Attraverso Rafah tenteremo di fare arrivare due container di beni non deperibili sanitari di primissima necessità (assorbenti, pannolini, cibo per bambini), ma in questo momento a Gaza gli aiuti purtroppo entrano col contagocce”.

Riconciliazione e diritto di cittadinanza: è l’unica via

Come abbiamo letto tutti, Netanyahu ha annunciato che la guerra finirà solo “con la distruzione di Hamas”. Ma questa posizione, per il responsabile Cgil, è irrealistica: “Pensare di sradicare attraverso una guerra un movimento del genere è illusorio. Hamas ha radici sociali così forti che non lo si elimina uccidendo i suoi leader, perché uccidi i leader ma non uccidi un pensiero”. Per la Cgil “la riconciliazione tra popolo palestinese e il popolo israeliano non potrà che avvenire tramite il riconoscimento dello Stato di Palestina e della cittadinanza, questo è il punto fondamentale: riconoscere al popolo palestinese, nella forma in cui i palestinesi vorranno, il diritto all'autodeterminazione. Da lì si ricostruirà una società anche con pieni diritti del lavoro. Non dimentichiamo - conclude infatti Marra - che prima del conflitto i palestinesi che andavano a lavorare in Israele erano dei ‘paria’, non era riconosciuto loro nessuno dei diritti dei lavoratori israeliani, se non attraverso dei framework agreement fra il sindacato palestinese e sindacato israeliano, validi però solo in alcuni settori”.