Riconoscere lo stato di Palestina serve ad affermare il diritto di quel popolo a esistere, ad autodeterminarsi. A dirlo è la docente di Diritto internazionale all’Università di Firenze Micaela Frulli, autrice di numerose pubblicazioni nel campo dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale penale, tra cui le monografie Immunità e crimini internazionali e Operazioni di mantenimento della pace: continuità di un modello normativo.

A suo giudizio è dal 1967 che Israele viola il diritto internazionale e, diversamente da quanto accadde con il Sudafrica, il resto del mondo si volta dall’altra parte. Oggi, secondo la docente, a rischio non è solo il popolo palestinese – e sarebbe più che abbastanza – ma l’idea stessa di diritto internazionale così com’è stato costruito dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Vorrei partire da una domanda che è quasi una provocazione. Molti Paesi hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, l'Italia no. Questo riconoscimento ha una qualche utilità?

Dal punto di vista giuridico no, non ha alcun effetto concreto, sia perché in generale il riconoscimento non ha un effetto costitutivo, in quanto l’esistenza di uno Stato non dipende dal riconoscimento degli altri, sia perché la situazione in quel territorio è, ovviamente, sotto gli occhi di tutti. Dal punto di vista politico, invece, il riconoscimento è molto importante: significa dare sostegno a una pretesa politica che è quella di avere uno Stato da parte dei palestinesi. Oggi quello Stato non ha la possibilità di esercitare la sovranità, però riconoscerlo politicamente avrebbe un grande valore, poiché si affermerebbe che esiste effettivamente un diritto del popolo palestinese ad autodeterminarsi e avere uno Stato.

Dal 1948 a oggi una serie di passi in avanti in questo senso sono stati fatti. Contemporaneamente assistiamo a una continua violazione del diritto internazionale da parte di Israele. Perché il mondo non ha fatto nulla per limitare queste violazioni?

Gli strumenti per intervenire e far rispettare il diritto internazionale ci sarebbero stati. Quel che è mancata, e manca tuttora, è la volontà politica di far valere le responsabilità per quelle violazioni che sono state constatate già da tantissimi anni, anche in sede Onu. Ben prima di arrivare agli eventi degli ultimi mesi, sono state approvate risoluzioni di condanna dell’occupazione dei territori come illegale. Voglio ricordare che l’occupazione illegale di territori va avanti dal 1967. Da allora gli Stati più forti hanno sostanzialmente deciso di condonare e garantire impunità al comportamento di Israele.

Ma si poteva e si può fare diversamente, come accadde, ad esempio, per il Sudafrica.

Quanto successo con il Sudafrica sta proprio lì a dimostrarlo: allora furono emanate sanzioni economiche e sanzioni diplomatiche. In questo caso, invece, si è scelto di non utilizzare il diritto internazionale come leva per far cessare le violazioni di Israele. Dare la colpa alle Nazioni Unite è sbagliato, è cercare un capro espiatorio. L’Onu funziona soltanto se gli Stati lo fanno funzionare, per cui se le Nazioni Unite non adottano misure è perché i governi non le votano.

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Ma così facendo il diritto internazionale dove va a finire?

Questo è il punto. Gli strumenti ci sarebbero, così come le cornici giuridiche, ma la scelta politica di non intervenire sta mettendo a rischio non soltanto i palestinesi, e sarebbe già abbastanza, ma lo stesso ordinamento internazionale. In questo modo si pongono le premesse perché queste regole perdano ogni credibilità. Siamo arrivati al paradosso che, invece di sostenere le istituzioni che cercano di far valere le regole e le responsabilità, come la Corte penale internazionale, si arriva a sanzionare la Corte, non Israele.

In effetti è proprio un paradosso…

Stiamo infatti assistendo allo stravolgimento del quadro normativo che va in una direzione opposta rispetto a quella per cui era stato costruito. Devo esser sincera, vedo anche un parallelo tra ciò che avviene a livello internazionale e a livello dei singoli Paesi. La criminalizzazione del dissenso che registriamo rispetto alle manifestazioni pro Palestine, dal Regno Unito alla Germania, dagli Stati Uniti all’Italia - e il cosiddetto decreto sicurezza fa parte di questo disegno - ci restituisce una compressione dei diritti fondamentali a diversi livelli che non fa presagire uno scenario luminoso.

Non sarà che stiamo arretrando rispetto all’eredità della seconda guerra Mondiale?

Si, stiamo tornando indietro. A rischio è la tenuta complessiva del patrimonio di istituzioni e regole che ci siamo dati dopo la seconda guerra mondiale. Se non lo si riconosce più come valido, se lo si smentisce platealmente, se addirittura si agisce contro coloro che cercano di salvaguardarlo, si mette a rischio la scommessa fatta allora, certo molto ambiziosa, di limitare l’uso della forza armata fra gli Stati e limitare l’uso della violenza all'interno degli Stati con l’affermazione dei diritti universali.

Eppure avremmo un apparato di strumenti molto prezioso…

È così, infatti. Ma se invece di provare a farlo funzionare, nonostante le difficoltà e i difetti, cominciamo a calpestarlo e a capovolgerlo, viene superato l’assunto che la guerra non è uno strumento con cui condurre le relazioni fra Stati. Nel momento in cui s’inizia a parlare allegramente di ‘mi prendo la Groenlandia, ti sei preso l'Ucraina’, non c'è più regola che tenga. Si torna alla legge del più forte.

Come s’inserisce in questo ragionamento la decisione Usa di non concedere i visti ai palestinesi per la sessione di settembre dell’Onu?

Gli Stati Uniti hanno iniziato a negare e revocare i visti ai membri dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) in vista della sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite che si apre a settembre. Mahmoud Abbas, presidente dell’Anp, è incluso nelle restrizioni, pur avendo in programma di recarsi a New York per tenere un discorso all’Assemblea generale. Si tratta di un’ulteriore violazione del diritto internazionale e, specificamente, dell’accordo di sede tra Onu e Usa in base al quale questi ultimi devono concedere il visto ai funzionari incaricati dagli Stati di partecipare ai lavori dell’organizzazione. C’è un precedente: nel 1988, l’Assemblea generale si riunì a Ginevra, anziché a New York, per consentire di partecipare all’allora leader dell’Olp Yasser Arafat, dopo che gli Stati Uniti di Reagan si erano rifiutati di dargli il visto per arrivare a New York.

Cosa può fare la società civile, cosa possono fare i popoli per affermare che un'altra relazione tra gli Stati deve essere possibile, a partire dalla Palestina?

La cosa più importante è continuare a tenere alta l’attenzione e continuare a informarsi, a cercare fonti d’informazione diversificate. Poi è importante continuare a chiedere ai nostri governi di rispettare gli obblighi ben precisi che hanno rispetto al diritto internazionale. Tutti i nostri governi hanno aderito alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio; quindi, hanno non soltanto l’obbligo di non compiere atti di genocidio, ma l’obbligo di prevenirli. Penso anche che azioni di boicottaggio economico e culturale, sia individuali sia collettive, siano misure molto importanti, sono quelle che nel momento in cui i governi non fanno niente possono battere la strada. In Sudafrica cominciò così, il boicottaggio economico cominciò dal basso. Insomma, penso che l’insegnamento del mio maestro Antonio Cassese, grandissimo giurista, che fu – tra le altre cose – presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, sia valido e attuale: ciò che può fare l’opinione pubblica è moltissimo.

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