“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo sancisce il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione italiana. Ma qual è la condizione di vita in carcere? Quali reali possibilità di rieducazione e di recupero sociale ci sono in un sistema alle prese con criticità insostenibili?

Sovraffollamento, degrado strutturale, spazi fatiscenti e invivibili, sempre più ridotti e angusti. Condizioni detentive degradanti e disumane, celle spesso non riscaldate o senza acqua calda né doccia, con bagni a vista; dove i detenuti dormono su materassi a terra, strutture con spazi individuali inferiori ai tre metri quadrati, molti reparti con detenuti chiusi nelle proprie camere di pernottamento anche di giorno.

In carceri in cui un terzo dei detenuti sono tossicodipendenti e numerosissime le persone con sofferenze mentali, risultano drammatiche anche le condizioni di salute con troppe difficoltà nell’accesso a cure, terapie e controlli. Il sintomo più evidente delle criticità delle condizioni detentive è quello tragico dei suicidi: dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita in carcere 67 detenuti, praticamente un suicidio ogni quattro giorni. Numeri che lasciano presagire un nuovo e terribile record, particolarmente intollerabile visto che le persone ristrette si trovano sotto la custodia dello Stato.

Una situazione insostenibile anche per chi in carcere lavora: polizia penitenziaria, educatori, psicologi, personale sanitario, costretti a misurarsi quotidianamente con difficili condizioni di lavoro e con la frustrazione di lavorare senza strumenti adeguati per svolgere la loro funzione.

Sono queste le condizioni del nostro sistema carcerario, che la politica securitaria del governo Meloni, espressione di un pericoloso populismo penale, non fa che aggravare. Da ultimo, con il dl 48/2025 (cosiddetto “pacchetto sicurezza”), anziché affrontare la disumanità delle condizioni detentive sono stati introdotti nuovi reati, nuove aggravanti e nuove fattispecie ostative specifiche dei detenuti.

Persino la proposta del Presidente del Senato, seppur minimale e non risolutiva, di domiciliari ai detenuti con residuo di pena inferiore a 18 mesi, è tramontata senza neppure passare in commissione. A conferma della volontà dell’esecutivo di procedere senza limiti nella direzione ostinatamente intrapresa di giustizialismo sfrenato.

I dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, aggiornati a settembre, parlano chiaro e consentono di tracciare un ritratto a tinte fosche del sistema carcerario italiano: 189 istituti penitenziari con 51mila posti regolamentari a fronte dei quali sono presenti oltre 63mila persone, ovvero 12 mila in più e in continua crescita anche nell’ultimo anno.

Numeri che portano a un tasso di sovraffollamento medio del 123%, che arriva al 153% nelle carceri della Puglia, al 150% in Friuli Venezia-Giulia, 146% in Veneto e in Lombardia, e che supera il 150% in ben 45 istituti. Tassi tra i più alti in Europa, ancora più drammatici in molte strutture: come a Brescia dove la popolazione detenuta è di più del doppio dei posti (204%), Bergamo (189%), Foggia (184%), Verona (181%), Roma a Regina Coeli (180%).

Il quadro peggiora ulteriormente se si considera che i posti effettivamente disponibili non arrivano a 47mila, dunque ci sono oltre 16mila persone ristrette in eccesso e il sovraffollamento reale è del 135%. Condizioni ai livelli record di quindici anni fa, che portarono la Corte europea dei Diritti dell’uomo alla sentenza dell’8 gennaio 2013, Torreggiani e altri, di condanna dell’Italia per violazione dei diritti umani.

Non c’è più tempo. Occorre affrontare il sovraffollamento non aumentando i posti nelle carceri ma con soluzioni capaci di coniugare i diritti fondamentali dei detenuti, in primo luogo la tutela della dignità umana, con il bene della sicurezza e soprattutto della funzione della pena, di rieducazione, recupero e reinserimento sociale, nel rispetto dei valori costituzionali.

Nonostante il ministro Nordio sia arrivato anche ad affermare che non ci sia nessuna correlazione fra sovraffollamento e suicidi e le misure deflattive vengano rappresentate come una resa dello Stato, servono provvedimenti di clemenza.

Occorre far accedere a misure alternative al carcere coloro che devono scontare pene brevi, prevedere sanzioni sostitutive  e misure di comunità; serve poi la depenalizzazione dei reati minori e un minore ricorso alla carcerazione preventiva. La lunga notte delle carceri italiane deve finire.

Daniela Barbaresi è segretaria confederale della Cgil