Gran parte dell’Europa ha messo il lavoro al centro dell’agenda politica. In ordine sparso o seguendo princìpi comuni, molti Paesi hanno varato riforme significative, a volte epocali, o interessanti sperimentazioni. È un segno dei tempi. Ed erano anni, probabilmente dai primi anni Duemila, che non si vedeva tanta vitalità legislativa. Qui proviamo a riassumere qualche caso, nella speranza che anche la politica italiana batta un colpo. Anche perché l’Italia è ferma al Jobs act (2014), che già a suo tempo non andava bene, e figuriamoci oggi.

In testa ai convogli ferroviari di solito ci sono le locomotive. Quindi cominciamo con la Germania che, alla voce salario minimo, ha messo a segno il cambiamento più significativo. Lo scorso 3 giugno, infatti, il Bundestag ha stabilito che a partire da ottobre il salario minimo legale per tutti i lavoratori tedeschi aumenterà a 12 euro l’ora. La riforma è stata poi approvata dal Bundesrat (la Camera dei Länder) il 10 giugno. Il Parlamento ha così approvato uno schema di aumenti graduali varato lo scorso autunno dal governo, e che si è già concretato negli scaglioni di gennaio 2022 (+9,82 euro) e luglio 2022 (+10,45 euro).

Già da luglio chi lavora percependo i minimi vedrà in busta paga aumenti del 6,5 per cento, per un dipendente a tempo pieno circa 110 euro lordi in più. Ne beneficeranno soprattutto i lavoratori dei Länder orientali e le donne, in particolare nei settori della ristorazione, dei trasporti privati e della logistica.

A ottobre - spiega Stefan Körzell del Dgb (la confederazione sindacale tedesca) – “con l'aumento a 12 euro, circa 6,2 milioni di lavoratori riceveranno un maggiore riconoscimento. Questo è anche un passo importante per ridurre la povertà in età pensionabile. Soprattutto, l'aumento del salario minimo aiuterà i lavoratori dell'industria dell'ospitalità, del commercio e dei servizi sanitari e sociali”.

Il sindacato tedesco non ritiene però che questa soglia sia sufficiente “a compensare gli enormi aumenti dei prezzi, soprattutto di energia e beni alimentari”, chiarisce il Dgb in una nota, e chiede ulteriori ritocchi alla Commissione per il salario minimo che, nel 2023, deciderà gli adeguamenti salariali a partire dal 2024.

Altrettanto criticata è la decisione di ampliare il limite di ricorso ai minijob. Un “grave errore”, osserva Anja Piel (Dgb), perché i minijob rappresentano per troppe persone “un vicolo cieco professionale” e “un’anticamera della povertà in età avanzata”.

Il vento del cambiamento soffia ancora più forte da Sud, e precisamente dalla Spagna, dove a inizio anno è entrata in vigore la riforma del lavoro voluta dalla ministra Yolanda Díaz. Un pacchetto di misure che mettono al centro la garanzia della stabilità dell’impiego e la lotta alla precarietà. Si è fatta pulizia nella giungla dei contratti stagionali, a tempo, a volte anche di pochi giorni, e si è anche colpito l’abuso dei contratti di tirocinio e apprendistato.

Risultato: da gennaio a oggi oltre due milioni di nuovi posti di lavoro stabili, solo ad aprile e maggio 700mila in più ogni mese. E la disoccupazione scesa sotto la soglia dei tre milioni, il che non accadeva dal lontano 2008.

“Siamo sulla strada giusta e la riforma del lavoro è un elemento chiave per ridurre la disoccupazione e l'occupazione temporanea”, commenta Mari Cruz Vicente delle Comisiones obreras (Ccoo): “La riforma del lavoro realizzata alla fine del 2021 ha avuto un impatto molto importante sul miglioramento dell'occupazione e, soprattutto, sul miglioramento della qualità dell'occupazione”.

“Le aziende hanno sostituito il lavoro temporaneo con il part-time come formula di flessibilità. Sarà cruciale vedere se la durata effettiva più lunga di questi contratti è confermata e se sono davvero di natura indeterminata”, prosegue la dirigente sindacale spagnola. Rispetto ai dati dello scorso maggio, le Ccoo sottolineano la creazione di 1,6 milioni di posti di lavoro e il fatto che 730mila di questi siano stabili.

Ma in Spagna si parla anche di riduzione dell’orario e di settimana corta, e si sperimenta. Come ha scritto su Collettiva Fausto Durante, la Generalitat di Valencia, il governo della regione valenciana, ha avviato “un progetto sperimentale sulla settimana di 32 ore di lavoro”. “Il sindaco di Valencia Joan Ribó ha lanciato il progetto pilota delle 32 ore in tutti i luoghi di lavoro della città, una sperimentazione della durata di un mese i cui risultati saranno oggetto di successive valutazioni rispetto agli impatti sulla produttività, sui conti economici delle imprese, sulle dinamiche dell’occupazione, sul grado di soddisfazione delle lavoratrici e dei lavoratori che parteciperanno”.

Questo tema – settimana corta, riduzione dell’orario a parità di salario – va flaggato per bene: è senza dubbio l’aspetto più innovativo e interessante nel panorama europeo dell’ultimo anno. Collettiva lo sta seguendo con un osservatorio dedicato. L’ultima tappa in Gran Bretagna, dove – scrivono Monica Ceremigna e Fabrizio Ricci – “il dibattito sulla 4-day work week, la settimana lavorativa di 4 giorni a parità di salario, è letteralmente infuocato. Da pochi giorni è infatti partita una sperimentazione senza precedenti, che coinvolge oltre 70 aziende e 3.300 lavoratrici e lavoratori che vedranno ridotto di 8 ore il loro orario settimanale, senza perdite di salario”.

Si tratta, proseguono Ceremigna e Ricci, di “una ‘rivoluzione possibile’ che è ormai discussa e sperimentata in molti Paesi (in Spagna ad esempio, ma anche in Belgio, seppure in una forma diversa) o addirittura applicata (come in Islanda). Solo l'Italia sembra ancora non essersi accorta (o quasi) di questo fenomeno globale”.

Un altro tema sul quale l’Italia pare distratta è il salario minimo, e con questo chiudiamo il cerchio e torniamo al punto di partenza. A inizio giugno la Ue ha dato luce verde a una Direttiva sul salario minimo per legge, e sul rafforzamento della contrattazione collettiva e la sua estensione a chi oggi ne è escluso. Insomma non si registrava da tempo tanta attenzione politica per i temi del lavoro, mentre inflazione e bassi salari impoveriscono la maggior parte dei cittadini europei. La “Repubblica fondata sul lavoro”, se esiste ancora, dovrebbe battere un colpo.