C’era una volta l’emergenza caldo, quando arrivava Caronte o si diceva “te la ricordi l’estate del...”. Il cambiamento climatico, a dispetto dei tanti negazionisti, ormai è una realtà che ci costringe ogni anno a soffrire di più. E mette a serio rischio i lavoratori. Ma anche stavolta c’è dovuto scappare un morto, ieri in un cantiere del Bolognese stroncato da un malore per via del clima rovente, perché diventasse una priorità. Ne abbiamo parlato con Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil che ha, tra le sue deleghe, anche la salute e la sicurezza sul lavoro.

Bene le ordinanze che vengono approvate dalle Regioni per proteggere i lavoratori dal rischio connesso al caldo. Cosa manca perché non restino solo sulla carta? 

È molto importate che le Regioni facciano ordinanze e che ormai questo sta diventando prassi, spesso confrontandosi con le parti sociali. Il problema è che le ordinanze intervengono quando l’estate è già scoppiata e bloccano le maggiori attività in esterna. Il limite è che le ordinanze non sono tutte uguali e non comprendono tutte le attività all’aperto. Penso, ad esempio, al lavoro dei rider, alle manutenzioni: sono tantissime i lavori che si svolgono all’aperto e, allo stesso modo, spesso fa molto caldo anche negli ambienti di lavoro al chiuso. L’altro grande limite è quello dei controlli. Insomma, la soluzione è intervenire sulla questione del cambiamento climatico in maniera strutturale.

Cosa state facendo come Cgil e come movimento sindacale a livello nazionale?

Come parti sociali, lavoriamo a un protocollo quadro, affrontando il tema con declinazioni che poi dovranno essere di categoria e territoriali per tenere conto dei diversi lavori e delle diverse aree geografiche. Il protocollo deve fornire un quadro di riferimento e sarà collegato al cosiddetto decreto cassa integrazione, al fine di coprire con la cassa gli eventuali blocchi del lavoro dovuti al caldo. una misura già attivata negli ultimi anni e che dovrebbe essere allargata ulteriormente. E anche qui la cosa essenziale è dire che l’allargamento deve essere deciso in via strutturale e non replicato ogni anni. Il protocollo è molto utile ma va introdotto nella contrattazione.

Cosa devono fare Parlamento e Governo? 

Uscire dall’emergenza e affrontare il problema strutturalmente. Il Parlamento deve mettere a disposizione gli strumenti, il protocollo delle parti sociali indica il metodo. Per costituire un quadro di riferimento strutturale che serva alle ordinanze. Gli elementi da definire sono il cosiddetto valore soglia, il limite oltre il quale si dovrebbe intervenire con blocchi, distribuzione dei dispositivi di protezione individuale e una rimodulazione dell’organizzazione del lavoro. Il valore soglia, ad esempio, è indicato nel decreto 81 ma non è stabilito per legge e le ordinanze si riferiscono al Worklimate2.0, un portale di Inail e Cnr, che incrocia diversi fattori come temperatura, umidità etc. Insomma, è ridicolo che da anni ci troviamo a ragionare di ordinanze territoriali: ci vorrebbe l’introduzione di norme che tengano conto delle indicazioni del decreto 81. Un’altra cosa da fare al più presto riguarda invece la mappatura della salute dei lavoratori in riferimento alle malattie professionali che può sviluppare nel tempo chi è esposto al caldo per molti anni. 

Le imprese come si pongono di fronte a questo tema?

Le imprese, in qualche modo, si sono adattate al fatto che bisogna intervenire con misure più stringenti, che questo problema non può essere lasciato alla loro individuazione dei rischi. Stanno accettando il fatto che il cambiamento climatico esiste. Però è molto difficile arrivare a punti di vista condivisi perché la resistenza, esattamente come fu per il Covid, ad affrontare costi aggiuntivi e a condividere con i rappresentanti sindacali l’organizzazione del lavoro è tanta. E poi c’è un tema che riguarda i blocchi ed è collegato alle scadenze previste dai contratti. Il caldo scoppia tutti gli anni e nelle scadenze questo elemento andrebbe calcolato”.

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