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Finalmente, dopo quasi due anni che non succedeva, il governo ha convocato la Cabina di regia sul Pnrr. Organismo richiesto dall’Europa, che avrebbe dovuto essere il luogo di confronto permanente sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ma si sa che Meloni e i suoi ministri hanno una specie di allergia al confronto con altri, soprattutto con sindacati e parti sociali.
E anche questa volta, purtroppo, il ministro Foti, quello con la delega alle questioni europee e al Pnrr, non ha smentito l’abitudine consolidata degli attuali inquilini di Palazzo Chigi: nessun confronto, pura illustrazione di fatti e cose, spesso fumosi e inconsistenti.
L’incontro
La Cabina di regia si è riunita a Palazzo Chigi con – appunto – il ministro Foti. Per la Cgil era presente il segretario nazionale Christian Ferrari, e il suo commento successivo all’incontro non poteva che essere di delusione: “Il governo non ha fornito alcuna informazione concreta sulla ridestinazione dei fondi in vista della rimodulazione del Piano. L'incontro, da questo punto di vista, è stato del tutto improduttivo”.
I numeri (che preoccupano)
Il rischio di fallimento del Pnrr non è scongiurato. La scadenza è fissata a fine estate 2026: manca meno di un anno a quella data, e se non avremo speso tutti i miliardi (quasi 200) a noi destinati e in parte considerevole arrivati, il non speso dovremo restituirlo. Lo stato dell’arte è semplice: a pochi mesi dalla scadenza dei 194,4 miliardi complessivi del Pnrr ne risultano in qualche modo impegnati 159. La differenza è di ben 35 miliardi, cui vanno aggiunti circa tre e oltre 12 mila progetti dei quali ReGis non è in grado di certificare a che punto è la fase di attuazione.
Il punto della situazione
“Il governo precedente ha consegnato al Governo Meloni un prefinanziamento e tre rate pari a 85 miliardi di euro”, spiega Ferrari: “Inoltre, nell’ambito dei pagamenti risultavano già ‘saldati’ gli interventi relativi all’Ecobonus 110% e Transizione 4.0, per un totale di 27,64 miliardi di euro”.
Dai dati pubblicati su Italia Domani, la spesa effettivamente sostenuta, al 31 maggio 2025, è pari a 74,3 miliardi di euro, il 38,22% del totale. L’incremento della spesa rispetto a febbraio 2025 è di circa 8,58 miliardi di euro, poco meno di tre miliardi al mese. Va peggio sul fronte dei pagamenti che, al 30 giugno 2025, risultavano pari a poco più di 70 miliardi, 5,63 miliardi di euro in più rispetto al 31 marzo 2025.
“Da quanto affermato dal ministro Foti alla Camera dei deputati, si sarebbe arrivati - evidenzia Ferrari - alla spesa (cosa, ovviamente, diversa dai pagamenti) di 86 miliardi. Ciò significa che a circa un anno dalla conclusione del Pnrr si è riusciti a malapena a spendere la quota parte di risorse ricevute per Milestone e Target conseguiti dal Governo Draghi”.
Tra una revisione e l’altra
È cosa nota che a scrivere il Piano non sia stata Meloni, ed è altrettanto noto che a lei il Piano originario proprio non piace: troppo pubblico, troppa cura delle persone e dell’ambiente, troppe infrastrutture sociali e troppi lacci nei confronti di chi deve essere “lasciato libero di fare”. Da quando si è insediata, non è un caso, ha più volte revisionato il Piano, riducendo asili nido e case di comunità, tagliando le reti ferroviarie che dovevano collegare le aree interne o restringendo gli interventi in favore della transizione energetica. Il tutto con un obiettivo: ridurre gli investimenti pubblici a favore delle imprese private.
La spesa per il riarmo
Come raggiungere due obiettivi: da un lato non dover restituire i fondi non utilizzati all’Europa, dall’altro raggiungere l’obiettivo del 5% di spese militari? Attraverso un’ulteriore revisione, spostando nel capitolo Difesa, che non ha vincoli temporali, una parte delle risorse. Ferrari è netto: “Per quanto riguarda la revisione del Pnrr proposta dal governo, ribadiamo la netta e totale contrarietà a utilizzare direttamente o indirettamente risorse del Piano per le politiche di riarmo, al fine di convertire la nostra economia in un’economia di guerra”.
Non è vero che privato è meglio
L’altro rischio che si corre è quello di un ulteriore spostamento dal pubblico al privato. Spostamento, per altro, coerente con la politica del governo, che tende senza nemmeno troppo nasconderlo a restringere sempre più il perimetro pubblico a favore del privato, cominciando dalla sanità.
“Esprimiamo contrarietà – aggiunge Ferrari – anche all’ennesimo spostamento di risorse dagli investimenti pubblici diretti agli incentivi a pioggia alle imprese con condizionalità (a partire da quelle sociali e ambientali) sempre più aleatorie. É semmai necessaria la creazione di eventuali strumenti finanziari per interventi sociali quali, ad esempio, la lotta alla povertà energetica e alla povertà dei trasporti, anche in coerenza con gli obiettivi del Piano sociale per il clima”.
Il segretario confederale Cgil evidenzia che “gli incentivi assegnati in questa maniera alle imprese nascondono, in realtà, la mancanza di un disegno nazionale di politica industriale e sviluppo tecnologico, di cui c’è un estremo bisogno. È altrettanto evidente l’arretramento in tema di giusta transizione, che noi invece riteniamo fondamentale al fine di mantenere gli impegni del green deal”.
Servono uomini e donne
Una volta realizzate case e ospedali di comunità, una volta approntati gli asili nido, come si farà a farli funzionare? Manca il personale, e il rischio che vengano “appaltati” a cooperative o gruppi privati è altissimo. Ferrari allora sottolinea la necessità di “un forte incremento delle dotazioni organiche delle amministrazioni pubbliche, riferendosi in particolaree alla stabilizzazione dei circa 9 mila precari del ministero della Giustizia, al personale indispensabile per far funzionare le nuove strutture della sanità territoriale e i nuovi nidi e scuole dell’infanzia, e alla stabilizzazione delle decine di migliaia di ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca che hanno consentito la realizzazione di importanti progetti del Piano”.
Ciò che manca
Uno degli impegni presi con il Pnrr era quello della riduzione dell’evasione fiscale. Tema non proprio caro al centro-destra al governo, anzi. Ricordiamo che Meloni definì le tasse “pizzo di Stato”. Non sarà un caso, quindi, il ritardo a fornire i dati. “Attendiamo inoltre - incalza Ferrari - la pubblicazione nel mese di novembre della relazione aggiornata sull’economia sommersa relativa all’esercizio fiscale 2023, visto che il Pnrr, in tema di tax gap, prevede la riduzione del 5% nel 2023 e del 15% nel 2024 della propensione all’evasione in tutte le imposte rispetto al 2019”.
La tendenza a nascondere
L’Europa che ha stanziato i fondi ha chiesto che vi fosse una gestione larga, prevedendo un ruolo da protagonista delle parti sociali. Ovviamente Meloni ha disatteso quest’indicazione non convocando la Cabina di regia, ma la conoscenza dei dati è indispensabile.
“Abbiamo chiesto l’accesso diretto ai dati di monitoraggio della piattaforma Regis, che fin qui sono stati ben poco trasparenti”, riprende Ferrari: “Soprattutto abbiamo chiesto il coinvolgimento delle parti sociali in maniera costante e continuativa sia nella Cabina di regia nazionale sia nelle Cabine di coordinamento territoriali. E non solo sull’attuazione del Pnrr, ma anche sulle riforme e sugli investimenti del Piano che avranno un impatto sociale anche dopo il 2026 su materie come il mercato del lavoro, il lavoro sommerso, la disabilità, la non autosufficienza, la sanità territoriale, il sistema di istruzione, l'infrastruttura ferroviaria, la pubblica amministrazione, gli alloggi per studenti universitari, i nidi d’infanzia”.
La conclusione è inevitabile
È un vero appello quello che Ferrari rivolge al ministro Foti: “Pur avendo visioni diverse su molti temi, ritengo che sul Pnrr dovremmo condividere pienamente le finalità per cui è stato concepito e finanziato: non certo per cristallizzare lo stato delle cose, bensì per favorire la trasformazione del Paese, sia nella struttura produttiva sia, soprattutto, rispetto alla riduzione delle diseguaglianze sociali e dei divari territoriali”.