L’annuncio dell’accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti, raggiunto in Scozia, ha lasciato un retrogusto amaro nelle stanze delle imprese italiane. Il nuovo sistema tariffario prevede dazi del 15% su una vasta gamma di beni industriali ed è stato subito bollato come un “colpo molto pesante” per il nostro export.

A lanciare l’allarme sono le principali sigle dell’artigianato e dell’industria manifatturiera, che fotografano con chiarezza l’ampiezza del danno: 25.037 imprese italiane esportano stabilmente verso gli Usa e solo nel 2024 hanno generato un valore di vendite pari a 56,4 miliardi di euro. Le nuove tariffe mettono a rischio due pilastri del nostro Made in Italy: la moda e la meccanica, settori fortemente radicati nel tessuto delle piccole e medie imprese.

Landini: “Il lavoro paga il prezzo”

Le parole del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, riassumono con nettezza la preoccupazione sindacale: “Mi sembra che l’Europa non stia giocando il ruolo che dovrebbe giocare e sono preoccupato per le conseguenze che l’introduzione di questi dazi, di queste norme determinerà sul lavoro nel nostro paese, sul sistema, anche delle imprese”.

Il rischio, secondo Landini, è che “siano di nuovo i lavoratori e poi i consumatori a pagare quello che sta succedendo. La logica dei dazi è il tentativo degli Stati Uniti di far pagare la loro crisi a noi. Loro che hanno un debito altissimo, di fatto gli impegni che si stanno prendendo di comprare più gas e più armi negli Stati Uniti”.

Quindi, conclude il leader della Cgil, “anche la spesa negli armamenti è un danno, perché vuol dire che poi tagli la spesa sociale o tagli da altre parti. E se addirittura tutto questo significa comprare il gas, comprare armi dagli Stati Uniti significa naturalmente continuare a pagare un prezzo molto pesante”.

Moda e meccanica nel mirino

Confartigianato aveva già acceso i riflettori nelle ore precedenti all’accordo, parlando di “crescente preoccupazione”. Con l’intesa ratificata, i timori si sono trasformati in dati. La Cna stima che, ai 67 miliardi di export diretto verso gli Usa, vadano sommati almeno altri 40 miliardi di flussi indiretti, composti in gran parte da beni intermedi prodotti da piccole imprese italiane nei settori colpiti dai dazi.

Il presidente della Cna Dario Costantini sintetizza l’impatto con un’espressione eloquente: “Si scrive 15 ma si legge 30%”, evocando il rischio di una doppia penalizzazione. Oltre al rincaro dei prezzi dovuto ai dazi, le imprese devono affrontare anche l’apprezzamento dell’euro sul dollaro (+15% negli ultimi mesi), che riduce ulteriormente la competitività.

Il conto stimato: oltre 20 miliardi persi

Il Centro Studi di Confindustria aveva già calcolato le possibili conseguenze prima della firma dell’accordo: le imprese italiane rischiano 22,6 miliardi di euro in minori esportazioni verso gli Usa. Solo una parte, fino a 10 miliardi, potrebbe essere recuperata ampliando la presenza su altri mercati. Un saldo comunque fortemente negativo, soprattutto per un sistema produttivo che ha fatto dell’export una leva di crescita, resilienza e innovazione. Se Unimpresa tenta di ridimensionare l’impatto sostenendo che solo un terzo delle aziende italiane esporta in America, il problema resta concreto per migliaia di piccole realtà già sotto pressione.

La politica in ritardo

Mentre le imprese premono sul governo per avere “sostegni e compensazioni”, si fa strada la richiesta di un ritorno urgente al confronto politico sul tema export. Palazzo Chigi è chiamato a riattivare il tavolo di lavoro dedicato, non solo per gestire l’emergenza, ma per affrontare una questione strutturale: come difendere il lavoro e il valore aggiunto italiano in un contesto internazionale sempre più instabile. Il nostro export non è un dato statistico, ma la somma di storie, competenze e territori. Proteggerlo significa proteggere il cuore produttivo del Paese. Anche per questo, di fronte a un dazio che vale doppio, la risposta non può essere a metà.