Un lungo viaggio in Vietnam per raccontare le condizioni di lavoro delle operaie. È un gesto inedito e coraggioso SHE, il documentario di Parsifal Reparato che verrà presentato a Locarno nella sezione Semaine de la Critique. L’appuntamento è sabato 9 agosto alle 11, con la proiezione del film in anteprima mondiale, il giorno dopo la replica (qui tutte le informazioni).

Il progetto è prodotto da AntropicA, in coproduzione con PFA Films, Les Films de l’Oeil Sauvage e Luce Cinecittà. Il titolo italiano sarà LEI – Racconti operai dal Vietnam. Girato nel cuore di uno dei sobborghi industriali dell’elettronica più grandi del Vietnam, uno dei maggiori al mondo, il film ci fa sentire la voce di una generazione di donne lavoratrici vietnamite, che vivono e operano sotto una pressione costante fatta di ritmi alienanti, controllo, isolamento e sogni sospesi.

SHE si presenta “con uno stile visivo radicale e uno sguardo antropologico”: dentro il doc si intrecciano testimonianze anonime, scene girate in uno spazio simbolico segreto, e il ritorno al villaggio di Tứ. Un percorso tra catene di montaggio inviisbili – in fabbrica non si può entrare –e dormitori minuscoli, che si trasforma in un discorso collettivo: ciò che hanno messo in scena può diventare un nuovo inizio. Il film ha ricevuto un contributo dalla Cgil.

Come nasce il film

Rispettando l’anteprima mondiale, che sarà appunto a Locarno, ne abbiamo parlato col regista Parsifal Reparato. “Il germoglio di SHE nasce da un percorso di collaborazione con l’Orientale di Napoli e con la Vietnam Academy of Social Science, con cui opero già dal 2013 sui progetti che riguardano i temi del lavoro. Voglio citare il progetto di ricerca da cui tutto nasce:  si chiama Horizon 2020 project Competing Regional Integrations in Southeast Asia (Crisea), insieme a EuropeAid project Empowering Civil Society and Workers in Vietnam (Ecow). Tre colleghi sno stati fondamentali nella realizzazione: il manager del progetto Đỗ Tá Khánh, il coordinatore del progetto scientifico Pietro Masina e la coordinatrice scientifica e di lavoro sul campo Michela Cerimele, che è anche co-autrice del film”.

Queste figure, dunque, sono state essenziali per la gestazione del film. Poi com’è andata? “Mi hanno detto di andare in Vietnam in piena pandemia – prosegue Reparato – per realizzare un progetto di advocacy. Mi chiesero se me la sentivo di andare nell’ottobre 2020 per raffinare la ricerca antropologica e con un video, appunto di advocacy. Ho accettato subito”.

Una volta giunto in Vietnam, c’è stata massima libertà di operare. “Nella ricerca sul campo mi diedero libertà di scelta: abbiamo fatto sopralluoghi nei principali parchi industriali dell’elettronica, che sono intere città, sobborghi molto estesi che possono avere anche 100.000 persone a vivere e lavorare dentro il distretto industriale”.

Nel “migliore” parco industriale

È qui che si comincia a scoprire qualcosa sulle condizioni di lavoro. “Ci hanno raccontato di tutto – dice il regista –, perfino che gli operai venivano picchiati con le mazze. A quel punto ho fatto una scelta: ho deciso di focalizzarmi sul parco industriale considerato il top, ovvero con le paghe più alte e le condizioni stimate come migliori all’interno di quel sistema. Perché? Ho pensato che per raccontare le storture di un sistema bisogna partire dal ‘meglio’ per far capire di cosa stiamo parlando davvero”.

La permanenza si è prolungata: “Dovevo rimanere un paio di mesi, a febbraio c’è il ritorno. Poi però a causa della pandemia, dei blocchi dovuti al Covid e alla questione burocratica dei permessi, sono rimasto in Vietnam sei mesi. È stato un periodo preziosissimo in cui si è creato un cortocircuito: abbiamo girato il video di advocacy, ma abbiamo intrecciato anche relazioni approfondite con le operaie, facendo una ricerca qualitativa importante”.

Il coraggio di 80 operaie

“Devi sapere – racconta Parsifal Reparato – che ci siamo focalizzati proprio sulle operaie perché mediamente l’80% della manodopera di base è costituita da donne. Negli impieghi più specializzati invece la maggioranza è maschile. All’inizio è stato molto difficile: abbiamo usato il metodo etnografico e alla fine i vietnamiti hanno acconsentito, ci siamo guadagnati un po’ della loro fiducia. La mia condizione di straniero in Vietnam ha funzionato perfino di più, certo lavoravo con un’interprete (Phuong Minh Nguyen) e ciò generava una certa ironia. All’inizio le operaie erano terrorizzate nel parlare del loro lavoro, le fabbriche facevano pressione per non farci rispondere. Abbiamo fatto centinaia di tentativi e alla fine abbiamo rotto il muro”.

Il film è incastonato su circa 80 interviste realizzate con le operaie dell’elettronica. “Le più coraggiose hanno iniziato a parlare, per vari motivi: chi aveva subito un’ingiustizia palese sul posto di lavoro, chi credeva nella nostra ricerca, e così via. In fabbrica non è consentito entrare, ma siamo riusciti a raccontare ugualmente il lavoro, anche entrando anche nelle loro case. Stiamo parlando – specifica – di persone che lavorano fino a 12 ore di giorno e notte, con quattro giorni di lavoro e due di riposo. Di solito il primo giorno di riposo lo passano a dormire... In mezzo a tutti i loro problemi hanno trovato il tempo da dedicarci, così siamo entrati nei gangli della produzione”.

Il ritorno in Vietnam

Il progetto si è svolto in due fasi. Così Reparato: “Dopo quattro anni siamo tornati a girare un’altra parte del film, sapendo che alcune lavoratrici sarebbero state licenziate, perché la media di impiego in quelle fabbriche va dai 3 ai 10 anni. Tra l’altro, già nel primo viaggio, gli operai ci raccontavano della robotizzazione e dei licenziamenti che sarebbero derivati. Insomma, nelle varie fasi del progetto c’è stata grande collaborazione da parte di tutti”.

Per ora non si può dire altro su SHE, che inizia il suo percorso a Locarno e ci torneremo dopo la proiezione svizzera. Il sito ufficiale del festival riassume così la trama: “Una narrazione corale sulle operaie di uno dei più grandi impianti industriali dell’elettronica in Vietnam. She è madre, figlia, moglie, single, migrante e radicata allo stesso tempo”. Non resta altro che vedere.