Eccola l’Italia governata da Giorgia Meloni e da questa destra. L’ultimo selfie del Paese è quello del disastro che si sta consumando intorno alla più grande acciaieria d’Europa. Un crollo, quello dell’Ilva, che il governo si è limitato a certificare, accompagnandolo all’uscita, quella definitiva, la chiusura. Così i sindacati hanno tradotto le intenzioni e le dichiarazioni del ministero, mentre a Taranto, Genova e nelle altre sedi del colosso d’argilla della siderurgia gli operai scendevano in strada e occupavano le fabbriche.

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Del resto la fragile casa Italia sta crollando sotto il peso della crisi. Lo dicono i numeri impietosi raccolti nello spazio di questi tre anni. Per la precisione 38 mesi (a far data dall’insediamento di Giorgia Meloni, 22 ottobre del 2022), oltre 30 dei quali passati a registrare un calo della produzione industriale oltre che alcuni dolorosi record. Un dato su tutti l’ha fissato nella memoria collettiva la Cgil, calcolando che lo scartamento è talmente ridotto che le nostre fabbriche oggi producono l’8,4% in meno di quanto producevano nel 2021, quando erano ancora in vigore parte delle restrizioni della pandemia da coronavirus.

“Per capire ancora meglio la portata di questa crisi – scriveva la Cgil a fine ottobre citando dati Istat – serve guardare anche alla sua durata: da febbraio 2023 la produzione industriale è calata per 26 mesi consecutivi, prendendo in considerazione la sua variazione tendenziale, che misura quanto è cambiata rispetto allo stesso mese dell’anno precedente”. Numeri da brivido, aspettando il vero impatto dei dazi Usa sulle esportazioni dei nostri prodotti.

A soffrire tanti settori, alcuni di questi, un tempo, eccellenza del Made in Italy. L’acciaio, senz’altro, ma anche l’automotive della sempre meno italiana Fiat-Fca-Stellantis, la cui cassa integrazione a Mirafiori, stabilimento simbolo, sarà di certo un caso, ma proprio con Meloni a Palazzo Chigi ha raggiunto la maggiore età compiendo 18 anni. Traballano la moda, il tessile e l’abbigliamento, settori nei quali fino all’altro ieri le griffe, allora italiane di fatto, non solo di nome, dettavano legge imponendo al mondo la propria idea di eleganza e il proprio stile. La chimica di base, altro campo nel quale per decenni siamo stati leader indiscussi.

La crisi industriale ha fatto presto a diventare crisi sociale

Di fronte a questo deserto la crisi ha fatto presto a uscire dalle linee di produzione e strisciare nelle case degli italiani. Con la cassa integrazione che cannibalizza i salari di interi distretti, mangiandosi una fetta importante di margini che non esistevano già più quando le persone ricevevano la busta paga, i debiti si sono aggiunti ai debiti, le persone sono rimaste indietro con i conti, le famiglie sono diventate sempre più povere e i consumi hanno iniziato a crollare. Una spirale velocizzata dal boom dell’inflazione che ha messo gli italiani in ginocchio. E la somma delle ore di cassa integrazione, tra ordinaria, straordinaria e in deroga, nel solo intervallo degli anni 23-24 è passato da 409 milioni a 495 (dati Cgil).

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Usiamo un numero tra i mille che raccontano questa brutta storia di declino collettivo: nel solo Lazio, nel solo terzo trimestre 2025, la cassa integrazione è quadruplicata. Parliamo di un territorio in cui pochi giorni fa un pensionato iscritto allo Spi Cgi è precipitato dall’impalcatura di un cantiere edile a Ceccano e dopo un volo di nove metri è morto sul colpo. Ecco le vittime della crisi, uomini ormai anziani cui la pensione non basta per tirare avanti. 

Tanto per ricordarci che dietro a quei numerini citati in continuazione per fotografare l’andamento dell’economia, ci sono le vite di donne e di uomini che – al di là dei proclami della presidente del consiglio – non se la passano affatto bene.

Lo ha ripetuto spesso nelle ultime settimane Maurizio Landini, sottolineando come, di fronte a questa situazione drammatica, la manovra licenziata dal consiglio dei ministri in cui non c’è traccia di decisi investimenti nella ripresa produttiva continui a essere lo specchio di un governo che non ha uno straccio di idea sulla politica industriale che il paese dovrebbe adottare

Moody’s alza il rating dell’Italia: ma il prezzo chi lo paga?

In queste ore abbiamo letto i commenti trionfalistici della destra sulla storica decisione di Moody’s che dopo 23 anni inverte la tendenza e alza il rating dell’Italia da Baa3 a Baa2. La presidente Meloni ha dedicato parole di ringraziamento al ministro Giorgetti, per “lo sforzo costante e scrupoloso nella gestione dei conti”. Ecco, appunto. L’agenzia di rating valuta il rischio di credito dei Paesi che giudica. Ma siamo umani, oltre alla finanza c’è di più. E il prezzo per scalare quel piccolo gradino e guadagnarci una media appena meno mediocre lo stanno pagando le persone. Pensioni, sanità, ripresa industriale, welfare, servizi, nella piccola manovra di fine 2025 non c’è quasi traccia di tutto questo. Conti a posto e tasche vuote. Del resto anche il rating della Grecia è in costante miglioramento dal crollo del 2011. Quello che resta da chiedersi è a che prezzo. 

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