Studiosa di cultura e letteratura africana, in questo ultimo lavoro di Chiara Piaggio, dal titolo L’Africa non è così. Cronache da un continente frainteso (Einaudi, pp. 170, euro 17), insieme al segno della sua ventennale esperienza nei Paesi della Africa Subsahariana si apprezza il valore di una scrittura che mescola con stile personale antropologia e filosofia, la cronaca con la narrazione, aggiungendo all’importanza dei contenuti il piacere della lettura. Le abbiamo rivolto alcune domande.

Quale Africa viene raccontata in questo libro?

Il titolo si presta a due interpretazioni, vere entrambe: non è quella che solitamente viene raccontata, o l’idea che ce ne siamo fatti, ma neanche quella che qui racconto io, perché non racconto l’Africa ma soltanto qualcosa della mia esperienza. Vengono proposte tematiche diverse perché diversi sono i paesi dove ho lavorato, e diversi sono i settori. La zona che frequento da oltre vent’anni è prevalentemente quella subsahariana, da cui ho tratto storie, esperienze, riflessioni, per cercare di far emergere una complessità che spesso viene sottovalutata. L’interesse che mi muove è conoscere e descrivere un’Africa molto più articolata di quanto possa vedersi da fuori.

C’è un capitolo dedicato alle grandi metropoli, prendendo spunto dalla città di Accra, ma non solo. Quanto incideranno le rapide trasformazioni dei conglomerati urbani nel prossimo futuro?
L’Africa si sta urbanizzando, molto rapidamente: Lagos, Il Cairo, Kinshasa, con i loro circa venti milioni di abitanti ciascuna, rendono bene il vasto mare urbano che si sta realizzando, seppur dalle diverse dimensioni e caratteristiche; e ciò che colpisce è la rapidità di questi fenomeni. Su quello che sarà il futuro tutto è ancora da capire. C’è chi immagina nel 2100 un enorme corridoio urbano da Lagos ad Abidjan, che attraverserà ben cinque Stati. Ma è tutto da vedere, come bisognerà vedere se tutto procederà allo stesso ritmo, e con le stesse modalità. Penso al racconto in cui la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie descrive Lagos come “una città che non smette mai di diventare”, e questo vale per molte metropoli. Allo stesso tempo l’Africa sta però cambiando anche nelle aree rurali, in quei villaggi che immaginiamo sempre identici a se stessi.

Il libro parla anche delle nuove generazioni, del grande divario d’età del continente rispetto alla vecchia Europa e al resto del mondo, del loro impegno politico e sociale. Che tipo di prospettive descrive tale realtà?
Nel libro li identifico come figli di un’epoca ambigua. Da un lato sono loro a essere sotto i riflettori, anche dell’agenda politica, dato che il 75% della popolazione africana ha meno di 35 anni, e una differenza generazionale così ampia inevitabilmente detta “l’atmosfera”, da cui provengono innovazioni e cambiamenti di impressionante velocità. D’altra parte, anche se i giovani hanno voglia di cambiare non hanno i mezzi per farlo, perché si scontrano con una gerontocrazia postcoloniale ancora molto forte e mai sconfitta, sacche consistenti di potere contro cui si battono, con e per ragioni diverse, le tante proteste a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. C’è però da aggiungere una cosa.

Cosa?
Il fatto che in Africa ci siano anche e soprattutto democrazie che funzionano, e di cui si parla troppo poco. In ogni caso, al netto di una grande partecipazione politica, si deve vedere caso per caso, e studiare le conseguenze di certe rivolte. Penso alla Nigeria, dove il movimento giovanile EndSARS sembrava aver rivoluzionato tutto, ma poi al momento delle elezioni in realtà non è accaduto praticamente nulla. Grandi mobilitazioni, dunque, ma con dei dubbi, e con il coinvolgimento di elementi che da noi nel tempo vanno perdendosi.

Per esempio?
Penso al ruolo degli intellettuali, alla partecipazione politica di scrittori, filosofi, di chiunque abbia una voce riconosciuta e riconoscibile. A differenza di quanto accade da noi, in queste situazioni prendono una posizione politica forte e chiara, assumendo un ruolo intellettuale ampio e consapevole.

Nel corpus del libro, e in nota, sono molti i riferimenti bibliografici che accompagnano il racconto. Possiamo suggerire un paio di testi per una lettura “diversa” dall’Africa degli stereotipi?
Sarebbero tantissimi, e in linea generale credo che la letteratura abbia un grande valore in questo senso, non perché gli scrittori raccontino l’Africa tutta o un Paese; ma attraverso il loro punto di vista, in forma di romanzo riescono a creare un immaginario. Metà di un sole giallo, sempre di Chimamanda Ngozi Adichie, ci parla della guerra in Biafra senza narrarla direttamente, in un’epoca di cui conosciamo poco, seguendo le vicende di due sorelle figlie di un ricco imprenditore, che conducono una vita molto diversa da quella che potremmo immaginare. Più in generale sono gli autori post-coloniali a interessarmi, perché raccontano il periodo che segue gli anni delle varie indipendenze, di cui ancora sappiamo molto poco rispetto alle turbolenze e i problemi riguardanti le costruzioni di questi nuovi scenari geopolitici. Un altro autore che amo è Mohamed Mobugar Sarr, non soltanto per La più recondita memoria degli uomini, Premio Goncourt nel 2021, ma anche per Terra Violata, che descrive il terrorismo islamico da un territorio non ben identificabile, che molto somiglia al Mali.

Possiamo aggiungere anche le antologie scritte a quattro mani con Igiaba Scego…
Sì, con i due Africana pubblicati da Feltrinelli (2021 e 2024), insieme a Igiaba Scego abbiamo cercato di offrire il nostro contributo.

Progetti futuri, di scrittura e non solo?
Per la non-scrittura sono sempre in movimento: è il mio lavoro, e prossimamente dovrei andare in Tanzania. Alla scrittura sto pensando...