Come si può pensare di modificare le regole del fisco senza discuterne preventivamente con le organizzazioni che rappresentano chi quella imposta la versa? È questa la prima nota stonata di tutta questa vicenda che Cgil Cisl e Uil hanno sottolineato al ministro Giorgetti, al viceministro Leo e al sottosegretario Mantovano incontrati nella Sala Verde di Palazzo Chigi. A meno di 48 ore da quando la delega fiscale sarà approvata in Consiglio dei ministri. Quasi il 90% dei contribuenti che pagano l’Irpef sono lavoratori dipendenti (22 milioni) e pensionati (14,5 milioni), ma con i sindacati nessun confronto, solo una informativa. “Questo proprio non va”, ha affermato Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Cgil uscendo dall’incontro.

Le tasse non sono un male

Oltre al metodo, che peraltro è quello seguito dall’esecutivo con tenacia, non un confronto nel merito ma un’illustrazione di decisione già prese, è l’idea che sottende alla delega che proprio non convince Corso d’Italia: “Le legge, pare, descrive le tasse come una sorta di male da evitare. Invece bisogna sempre tener presente che le imposte sono il mezzo attraverso cui si raccolgono le risorse per pagare il welfare pubblico, la sanità, l’istruzione, gli investimenti pubblici, a livello nazionale come locale”.

Insomma, basta leggere la nostra Costituzione – quella su cui Meloni e ministri hanno giurato - per rendersene conto: il fisco dovrebbe essere lo strumento per distribuire la ricchezza prodotta dal Paese attraverso investimenti, lavoro, welfare e servizi pubblici, così facendo contribuendo a ridurre le diseguaglianze e generare crescita.

In origine, con la legge quadro del 1974, le aliquote erano 32, oggi sono quattro. Il governo vorrebbe portarle a tre, ciò vuol dire: “che ridurre il numero di aliquote significa non diversificare e ridurre la progressività. L’obiettivo dichiarato è la flat tax, l’aliquota unica per tutti: che significa non riconoscere che lo Stato debba chiedere imposte diverse perché diversa è la condizione e diversa è quella che la nostra Costituzione chiama la “capacità contributiva” tra chi guadagna 10.000 euro e chi ne guadagna 40.000, come è diversa quella di chi guadagna 40.000 da chi ne guadagna 100.000, 150.000 o milioni. È quella che sia chiama equità verticale”.

C’è un problema in più: a parità di reddito, tutti e tutte dovrebbero pagare le stesse tasse. Già oggi non è così, il reddito quello da lavoro dipendente e da pensione viene tassato di più di quello frutto di rendite o lavoro autonomo.

Tax expenditure

Ovvero detrazioni e deduzioni. Secondo gli estensori della delega riducendo e disboscando queste si garantirebbe progressività. Non solo questa affermazione è tutta da verificare, secondo la Cgil, perché se si riducono le detrazioni delle spese sanitarie o di quelle per l’istruzione si fa peggio. Dice Fracassi: “Se le tax expenditure vanno ridotte, tale taglio va effettuato sugli incentivi alle imprese, che dal 2015 a oggi hanno cubato quasi 200 miliardi con risultati molto scarsi”.

Chi pagherà il welfare?

Certo non le imprese. Secondo la delega, l’Ires – l’imposta sui profitti delle imprese – sarà ridotta, e l’Irap, quella con cui si finanzia il servizio sanitario regionale, sarà abolita. Come si vede torna la logica della riduzione del gettito – guarda caso a favore di imprese e non di lavoratori dipendenti e pensionati – che inevitabilmente si porterà dietro un ulteriore restringimento del perimetro pubblico dello Stato. Davvero il contrario di ciò che serve alla luce di quanto dovremmo aver imparato dalla pandemia.

Lotta all’evasione, per finta

Nel nostro Paese la gran parte dell’evasione è quella “piccola e diffusa”. Se si pensa di contrastarla facendo accordi preventivi con i contribuenti l’idea che si fa strada è quella di “tollerare” una quota strutturale di evasione. D’altra parte, questa è la direzione già percorsa dalla prima finanziaria targata Meloni.