Che lo Stato possa partecipare all’impresa privata non è più un’eresia. Che intervenga con una presenza anche determinante, entri nel capitale, modifichi le sorti dettate dal mercato non sembra più un sacrilegio. Lo dimostra l’articolo 43 del decreto Rilancio del maggio scorso, che istituisce un fondo per la salvaguardia dei livelli occupazionali e la prosecuzione dell’attività di imprese titolari di marchi storici di interesse nazionale, che versano in uno stato di difficoltà economico-finanziaria. La prima a giovarsene è stata la Corneliani, azienda di moda maschile del mantovano con una situazione ingarbugliata: un concordato in bianco depositato dalla dirigenza alla ricerca di nuovi compratori o investitori, produzione ferma nonostante le commesse e cinquanta giorni di mobilitazione dei lavoratori che non si sono rassegnati alla chiusura. L’epilogo: il Ministero dello sviluppo economico si impegna a dare un finanziamento completamente pubblico di non meno di 10 milioni di euro entro la fine di settembre e sblocca la produzione, la fabbrica riapre, i posti di lavoro sono garantiti. Un salvataggio in piena regola.

Ma che cosa sta accadendo? “Succede che la legislazione d’emergenza costruita in questi mesi ha allargato il campo degli interventi pubblici, che ci sono sempre stati ma sono stati disordinati e legati a logiche del fondo perduto – spiega Emilio Miceli, segretario confederale Cgil -. Con questi nuovi strumenti il sistema pubblico non solo può intervenire nelle imprese ma può anche cambiarne le condizioni attraverso la presenza. Per noi è un passo in avanti, perché in una situazione di grande difficoltà a tutti i livelli era necessario che lo Stato desse segnali netti e inequivocabili”.

Diverso è il caso della Sammontana, produttrice empolese di gelati e titolare di marchi come Tre Marie e BonChef, con stabilimenti anche a Vinci e nel veronese, sostenuta a fine luglio da Cassa depositi e prestiti, istituzione finanziaria dello Stato, con un contratto di finanziamento di 10 milioni di euro. Un intervento che ha come obiettivo principale “il completamento di investimenti finalizzati alla crescita dimensionale del gruppo” si legge nel comunicato della Cdp. In sostanza, un supporto a un’impresa per garantire ulteriore liquidità in questa fase emergenziale, senza alcun intervento nel capitale e quindi alcuna ingerenza nella gestione aziendale. Due interventi diversi da parte dello Stato, ma con soldi dello Stato. Operazioni che sembrano una novità o, quanto meno, un ritorno al passato, quando le partecipazioni statali erano all’ordine del giorno e la politica industriale era diretta, decisa e materialmente operata dal pubblico. “In realtà pariamo di qualcosa che non ha smesso mai di esistere – commenta Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, centro studi indipendente specializzato in economia e mercato del lavoro, ha appena dato alle stampe per Rubettino il volume “Ripartenza verde” -. Il problema è capire se e dove ne vale davvero la pena che lo Stato intervenga, per evitare la frammentazione sociale, mettere al sicuro posti di lavoro, rilanciare le imprese. Nel caso della Corneliani, queste caratteristiche ci sono”.

Eppure non tutti sono d’accordo. C’è ancora chi pensa che questo ruolo non competa allo Stato e che il mercato sia capace di autoregolarsi. “L’intervento pubblico ha evitato che l’azienda fosse presa da avvoltoi stranieri – precisa Michele Orezzi, segretario generale Filctem Cgil Mantova, al fianco dei lavoratori nei giorni delle battaglie -. Certo, il marchio si sarebbe potuto salvare dal fallimento, ma la produzione sarebbe stata portata altrove e il know how italiano si sarebbe disperso. Oggi invece il Mise dà una garanzia ma il problema non è risolto: ci vuole un piano di rilancio vero dell’azienda”.

Siderurgia, chimica, logistica, telecomunicazioni. Sono alcune delle funzioni molto diverse ma tutte strategiche “che il sistema pubblico deve presidiare – aggiunge Miceli -. Perché qualificano la forza e la capacità dello Stato di poter competere con gli altri sistemi pubblici ed economici. In questi ultimi trent’anni il mercato ha pesato più dello Stato, è bene adesso che lo Stato pesi più del mercato. Un’urgenza che c’era anche prima dell’emergenza Covid-19 e che sosterremo anche dopo”. D’altra parte l’Italia ha vissuto con speranza e fiducia gli anni delle grandi privatizzazioni, Telecom in testa, quando l’azienda di telecomunicazioni nazionale era tra le sette più grandi al mondo, mentre oggi è scivolata di parecchi posti nella classifica globale.

“Se il pubblico torna nel privato lo deve fare con intelligenza, perché le risorse sono limitate – rincara Sabella -. Non fondare una nuova Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale che ha segnato un’epoca, anche perché non c’è più quella generazione di manager pubblici con le competenze necessarie per dettare le condizioni e dialogare con il sistema produttivo. Ma intervenire strategicamente in alcuni settori. Come ha fatto la Francia”. Che non ha mai smesso di presidiare gli asset più importanti e anzi ha sostenuto e finanziato la Peugeot Psa Groupe in tempo di crisi del settore automobilistico, pretendendo che il colosso investisse in sviluppo e ricerca nel campo dell’elettrico.

“L’idea per la quale dove c’è lo Stato c’è un fallimento e dove invece c’è il privato c’è una storia di successo può vivere nelle suggestioni di qualcuno, ma nella realtà non è accaduto questo – conclude il segretario Cgil Miceli -. Il processo di cambiamento di grandi imprese come Enel ed Eni non è stato all’insegna della smobilitazione della presenza pubblica e questo ha fatto bene sia all’Enel che all’Eni. Adesso bisognerebbe tornare a pensare alle forme attraverso cui lo Stato può intervenire. Ben venga un Istituto o un’Agenzia nazionale per lo sviluppo, cioè un soggetto che possa contribuire a ricostruire una cultura manageriale, perché non basta mettere i soldi in questa o in quell’azienda, occorre recuperare un’idea della direzione d’impresa legata agli obiettivi industriali, elemento che manca totalmente nel nostro Paese”.