Sofia è una donna giovane, perché a 55 anni si è giovani, una vita piena di interessi e di affetti. Un lavoro gratificante e appagante e tante attività per sé e per gli altri. Ha passioni, moltissime, a cominciare da quella per la lettura, e poi le camminate lunghe magari chiacchierando con una amica. E ancora, conserve e marmellate, sempre in compagnia perché qualunque attività fatta con altre è meglio. E le lingue parlate e lette che aprono la mente al mondo. Ed è una donna curiosa e assetata degli altri. Ed ha una vera fortuna, un marito e un figlio straordinari.

E poi la vita cambia, lentamente ma nemmeno troppo. Durante il lockdown si affaccia un dolore ad una spalla e, contemporaneamente, un braccio comincia ad atrofizzarsi. Sofia collega i due sintomi e non dà troppa importanza al secondo. Per altro in quelle lunghe settimane tutto era sospeso a cominciare dalle visite mediche. Quando finalmente ci si è tornati ad incontrare, ad una cena organizzata “in sicurezza” un amico neurologo, era luglio dello scorso anno, si insospettisce per quel braccio quasi senza vita e suggerisce risonanza ed elettromiografia, preoccupato che quei sintomi fossero l’epifenomeno di una malattia assai grave. E, purtroppo, l’esito degli esami non lascia scampo: Sofia soffre della malattia del Moto neurone, la Sla.

Mentre comincia ad aver difficoltà anche a muovere l’altro braccio e a camminare, proseguono gli esami e le analisi che confermano la diagnosi e anche l’ospedale romano che l’ha presa in carico la ufficializza. La Asl di competenza, accertato che tutto sia in ordine, le assegna il codice della patologia e l’esenzione dal ticket, ovviamente non in automatico, come sarebbe normale in un regime di comunicazione diretta tra ospedale pubblico e Asl competente, ma a seguito della richiesta consegnata a mano dal marito insieme alla certificazione. Ma Dario, il marito di Sofia, deve lasciarla in compagnia di qualcuno perché lei sola non può più rimanere. E Sofia e Dario sono “fortunati” perché hanno un figlio straordinario e una rete amicale su cui contare. E perché possono ancora lavorare da casa altrimenti sarebbero davvero nei guai.

Fatta la procedura alla Asl, si avvia la pratica per l’invalidità civile, indispensabile ad esempio per avere il contrassegno invalidi da apporre sulla macchina e consentire a Sofia di arrivare fin dentro l’ospedale per fare i controlli visto che camminare è ogni giorno più difficile. Richiesta del medico di base, fatta! Domanda inoltrata all’Inps attraverso il Caf, fatta! Ricevuta di ricezione da parte dell’Istituto di previdenza, arrivata!

E poi tutto tace da gennaio. Tace proprio nel senso che non è arrivata nemmeno la comunicazione con la data dell’appuntamento per la visita medica che dovrà accertare quanto accertato dalla struttura pubblica e accettato dalla Asl. Solleciti, domande di informazione, almeno sui tempi previsti, andate nel vuoto. La risposta è sempre la stessa: non si sa nulla perché c'è il Covid. E nel frattempo le vita per Sofia, Dario e il loro figlio si fa ogni giorno più difficile.

Michele e Clelia sono sposati da 50 anni, lui di anni ne ha 91 lei 81. Michele non vede quasi più e, oltre a qualche acciacco cardiaco, ha una neuropatia degenerativa agli arti inferiori per cui camminare autonomamente non è più possibile. Clelia ha una patologia oncologica del sangue, è seguita da uno dei reparti di ematologia più rinomati di Italia, quello fondato dal professor Mandelli al Policlinico universitario della Capitale. Per anni non hanno nemmeno presentato la domanda di invalidità ritenendo che in fondo “abbiamo due pensioni dignitose ce la facciamo perché sottrarre risorse pubbliche a chi magari ne ha più bisogno di noi?”.

Poi le cose sono cambiate e con le pensioni dignitose riescono a fatica ad arrivare a fine mese perché hanno bisogno di chi si occupi di loro, non riuscendo più ad essere autonomi come fino a poco tempo fa. E hanno anche capito che il riconoscimento di invalidità non è solo l’indennità di accompagno, ma consente prima di tutto di accedere più facilmente ad alcuni, ancorché scarsi, servizi.

A fine 2019 inoltrano la domanda all’Inps che fissa l’appuntamento per fine marzo 2020. E poi la pandemia. L’Istituto comunica ai due anziani che il loro appuntamento è annullato e che “a breve” avrebbero ricevuto la nuova data. È passato un anno e mezzo e la data del nuovo appuntamento non è mai stata comunicata. Michele e Clelia hanno sollecitato, hanno inoltrato addirittura una nuova domanda, ma non hanno ricevuto nemmeno risposta. Nel frattempo le condizioni di Clelia, soprattutto, ma anche di Michele, si sono aggravate.

Ora la domanda che si fanno Sofia e Dario, Michele e Clelia, e moltissimi altri, e noi con loro, è come mai sia possibile che un istituto come l’Inps non abbia trovato le forme per dare comunque risposte alle persone più fragili? Come sia possibile che tutto sia fermo, immobile da un anno e mezzo? I medici, anche quelli dell’Istituto sono vaccinati, fragili e anziani anche, perché le visite non sono riprese? E perché non vengono nemmeno fissati gli appuntamenti? Ancora, più importante, ci si deve chiedere: avendo strutture pubbliche accertato le malattie e il grado di gravità delle stesse perché le verifiche non possono essere fatte sulla base della documentazione clinica?

Ma è mai possibile che tutto è ripartito, si può andare al cinema e a teatro, tutto è riaperto soltanto l’Inps continua a non ripartire attribuendo al Covid inefficienze e mancanze che sono solo sue? Ai protagonisti delle nostre storie e ai tanti, troppi come loro, cosa resta da fare? Denunciare l’Istituto per interruzione di pubblico servizio e omissione di atti d’ufficio? Incatenarsi ai cancelli per farsi ascoltare? Per Sofia, Dario, Michele e Clelia non è andato tutto bene.