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Mai avrei pensato di trovarmi per una volta d’accordo con Matteo Salvini, quando dichiara che con l’esenzione dallo studio della Divina Commedia per due studenti di terza media di origine musulmana non si capisce se siamo “sull’orlo del baratro o sul limite del ridicolo”. La vicenda, in effetti, appare quasi surreale.
L’insegnante di una scuola secondaria di prima grado nel Trevigiano sembra infatti aver chiesto l’autorizzazione alle famiglie di due allievi della sua classe per poter parlare della Divina Commedia, in virtù di alcuni versi che Dante riserva alla religione islamica, Maometto e non solo. Le famiglie hanno optato per l’esenzione, anche se poi la scuola sembra aver cercato di convincerle a rivedere la propria scelta. Ciò che appare poco comprensibile non è soltanto la procedura attuata, al vaglio degli ispettori prontamente inviati dal ministro Valditara, in odore di speculazione politica pre-elettorale, quanto la concezione didattica alla base della situazione venutasi a creare.
Da insegnante di materie letterarie in una scuola media posso dire di aver sempre parlato della Divina Commedia, ritenendolo un dovere ineludibile se si insegna la storia della Letteratura italiana, e per la natura stessa dell’opera, la cui insuperata grandezza si offre al mondo intero. Studiarla significa avvicinarsi alla storia della nostra lingua e della nostra letteratura, e i cento Canti e gli oltre quattordicimila versi del Sommo Poeta si aprono a numerose, anzi infinite chiavi di lettura.
Dovendo scegliere per esigenze di programma cosa leggere e spiegare dell’Inferno da più di vent’anni tra medie e superiori, non mi è mai capitato di proporre il Canto XXVIII, quello dove vengono collocati i seminatori di discordia tra cui Maometto, anche perché più di Maometto si può parlare, è inutile ricordarlo, di Paolo e Francesca, e accanto a loro ci sono il goloso Ciacco, l’orgoglioso Farinata, Ulisse e le Colonne d’Ercole, la tragica sorte del conte Ugolino, tralasciando che nel Canto XIX un paio di papi vengono messi non solo all’Inferno ma a testa in giù, per scontare simonie e altri peccati. Se poi si arriva al Purgatorio, o ci si avventura nel Paradiso, non c’è che l’imbarazzo della scelta.
In un mare di personaggi e suggestioni così vasto non c’è dunque bisogno di calcare la mano sulla componente religiosa; e se proprio si vuole privilegiare questo aspetto potrebbe piuttosto essere l’occasione per impostare un discorso di carattere ecumenico, favorendo una riflessione sull’incontro tra culture diverse. Lo scrive Dante stesso quando ancora nell’Inferno (Canto IV) ci racconta di Avicenna e Avverroè “che ‘l gran commento feo” ai testi di Aristotele, o dello stesso Saladino, nemico sì al tempo delle Crociate, ma citato anche nel Convivio come esempio di liberalità.
Se poi vogliamo entrare nello specifico degli studi danteschi, supportati da chi ha dedicato una vita alle tante interpretazioni che offre un capolavoro come la Divina Commedia, basti citare il “Libro della scala”, composizione escatologica di vari autori musulmani, come dimostra la sua antica provenienza spagnola, tra i riferimenti letterari di certo tenuti a mente da Dante per immaginare l’intera struttura della Commedia, seguendo le indicazioni di uno dei suoi maestri più ascoltati, Brunetto Latini.
Non serve dunque presentare la Divina Commedia come testo “divisivo”, anzi sarebbe il caso di insistere su quella che è l’unica vera religione di Dante Alighieri: la ricerca della sapienza, per arrivare al Paradiso della conoscenza. Che rende tutti beati, e ciascuno libero.