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Il 5 novembre 1975 il funerale di Pier Paolo Pasolini presso la Casa della Cultura in Piazza Campo de’ Fiori divenne uno tra i momenti più iconici della storia culturale e politica del secondo Novecento italiano, in particolare per l’orazione funebre di Alberto Moravia, che dopo aver ricordato di aver perduto un poeta, un romanziere, un regista, concluse sottolineando l’importanza e la peculiarità del Pasolini saggista con queste parole:
Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo Paese, per lo sviluppo di questo Paese. Un’attenzione diciamolo pure patriottica che pochi hanno avuto. Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo Paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo Paese come Pasolini stesso avrebbe voluto.
Nei cinquant’anni trascorsi dal suo omicidio, equamente distribuiti tra vecchio e nuovo secolo, è proprio il Pasolini saggista quello che forse torna più alla mente, bussando insistentemente alla porta della nostra convulsa contemporaneità attraverso le sue parole, gli scritti e gli articoli apparsi sulle colonne del Corriere delle Sera e nelle pagine de Il Mondo (ma anche di altre riviste), contenuti negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, volumi entrambi pubblicati appena dopo la sua morte.
Nella prefazione all’ultima edizione Garzanti delle Lettere luterane è lo storico Guido Crainz a evidenziare come “la ‘mutazione antropologica’ del paese è il grande tema delle Lettere luterane e degli Scritti corsari”; tema, d’altra parte, già presente nei primi Comizi d’amore del 1964, straordinario documentario che vede Pasolini nel ruolo di cronista (oltre che di regista) aggirarsi dall’evoluto Nord all’estremo Sud nell’Italia dell’epoca, microfono alla mano, per offrire una testimonianza diretta di questa mutazione antropologica già in atto, messa a confronto con una certa genuinità secolare, atavica, che andava perdendosi giorno dopo giorno dentro l’ideologia di un progressismo ben presto trasformato in consumismo, divenuto dominante e dominatore nella società in cui viviamo.
Nel suo ultimo anno di vita Pasolini ci scrive di scuola e televisione, e della sua “modesta proposta” di abolirle entrambe; di un “potere senza volto”, che mette in crisi la politica e la funzione dei sindacati, condizionando la vita dei cittadini; di “giovani infelici”, e del difficile rapporto tra generazioni sempre più lontane; del “genocidio culturale” causato dalle febbrili trasformazioni imposte dal consumismo, riducendo le classi popolari a strumenti di profitto per pochi, rendendo vittime sacrificali uomini, tradizioni e diritti sociali.
Se a tutto questo viene aggiunto ciò che Pasolini stava ancora realizzando prima di morire, dalla regia di Salò o le 120 giornate di Sodoma, sconvolgente denuncia della corruzione e della depravazione umana, alla scrittura di Petrolio, romanzo controverso e incompiuto, pubblicato soltanto nel 1992 con inquietanti pagine mancanti riguardo un’altra morte ancora misteriosa, quella del petroliere Enrico Mattei, ecco che il quadro di quanto l’intellettuale italiano voleva freneticamente lasciare in eredità, come sentisse imminente la sua fine, sembra chiudersi quasi per inerzia, e con macabra premonizione.
Oggi, a mezzo secolo dalla tragica notte tra l’1 e il 2 novembre all’Idroscalo di Ostia, ancora in attesa di conoscerne tutta la verità, viviamo comunque con una certezza: Pasolini voleva avvertirci di quello che sarebbe accaduto, per donare qualche possibilità di una salvezza per certi versi ecumenica, quasi purificatrice. Un appello accorato, civile, patriottico, per la disperata volontà di migliorare questo Paese, come intuì Moravia. E che nessuno, in questi anni, sembra aver raccolto.






















