Il 18 ottobre 1909 nasceva a Torino Norberto Bobbio, filosofo e giurista italiano. La sua giovinezza, dirà, sarà “vissuta tra un convinto fascismo patriottico in famiglia e un altrettanto fermo antifascismo appreso nella scuola, con insegnanti noti antifascisti, come Umberto Cosmo e Zino Zini, e compagni altrettanto intransigenti antifascisti come Leone Ginzburg e Vittorio Foa”. Nel 1942 Bobbio partecipa al movimento liberalsocialista fondato da Guido Calogero e Aldo Capitini e, nell’ottobre dello stesso anno, aderisce al Partito d’Azione clandestino. Nel 1953 parteciperà alla lotta condotta dal movimento di Unità popolare contro la legge elettorale maggioritaria e nel 1967 alla costituente del Partito Socialista Unificato.

Nel 1971 sarà tra i firmatari della lettera aperta pubblicata sul settimanale L’Espresso sul caso Pinelli. Nell’articolo La violenza di Stato (in Resistenza, XXIV, gennaio 1970, n. 1, p. 3), trascorso meno di un mese dal 12 dicembre 1969, Bobbio scriveva: “Vi sono fatti inquietanti che non ci permettono di adagiarci nella tranquilla certezza che la violenza sia dall’altra parte, dalla parte cioè della protesta, dei cortei e delle agitazioni studentesche. L’unico modo di riconoscere la violenza è quello di riconoscerla anche quando non scende e grida in piazza, ma si nasconde dietro la decorosa facciata delle istituzioni che difendiamo”.

Recitava l’appello: “Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione. Oggi come ieri - quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e l’indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati - il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini” (nel 1998 in una lettera indirizzata ad Adriano Sofri pubblicata su la Repubblica ripudierà il tono del linguaggio utilizzato nell’appello ma senza ritrattarne l’adesione al contenuto di critica sui fatti legati a Piazza Fontana).

Il 14 febbraio 1972 scrivendo a Guido Fassò intorno al problema democratico, Bobbio si sfogava sostenendo che “questa nostra democrazia è divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento dietro cui si nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato, sempre più esorbitante (...) Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno a un’oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto con la corruzione (...) La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è l’ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare ... vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a poco a poco (...) a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili degenerazioni”.

Nel 1979 Bobbio sarà nominato professore emerito dell’Università di Torino e nel 1984, ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 della Costituzione italiana, avendo “illustrato la Patria per altissimi meriti” in campo sociale e scientifico, sarà nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. “Mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo - diceva - Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un’altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me”.