Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 4 2017 della Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista.

I trasferimenti degli italiani all’estero sono inquadrabili alla luce di due grandi trasformazioni: la costituzione in Europa di una forza-lavoro “multinazionale” e il progressivo allargamento delle fasce precarie del mercato del lavoro. Gli spostamenti dall’Italia avvengono in un contesto di crescita delle migrazioni interne all’Unione. L’allargamento a Est e la crisi economica dei Paesi del Sud hanno avuto l’effetto di aumentare gli spostamenti verso alcuni Paesi continentali. I movimenti interni dei lavoratori hanno radicalmente cambiato la composizione interna della forza-lavoro, accelerando un processo già in corso di diminuzione dei caratteri di omogeneità nazionale.

Tuttavia, in molte ricerche si tende a differenziare i migranti provenienti dall’Est e dal Sud sulla base del livello di istruzione: la distinzioni tra “cervelli” in fuga dalla crisi economica degli Stati meridionali e lavoratori non qualificati provenienti dai Paesi ex sovietici si poggia su basi quanto meno inesatte. I dati dell’Eurostat mostrano come il livello di istruzione tra i migranti originari di aree diverse dell’Unione non sia particolarmente differente. Ne consegue che sostenere la disparità in termini di skills tra le due componenti più che fondarsi su evidenze empiriche si basa su una discriminazione ai danni dei cittadini dell’Est Europa, le cui qualifiche non vengono riconosciute adeguatamente dalle imprese dei luoghi di destinazione.

I nuovi migranti si inseriscono all’interno di un mercato del lavoro europeo sempre più duale, tra una parte sotto-occupata e precaria e l’altra, seppur in via di restringimento, che continua a mantenere i propri diritti. Nei settori economici ad alto valore aggiunto e nelle posizioni più qualificate resitono forme di impiego più remunerate e protette. Nel resto del mercato del lavoro vi sono spinte sempre più intense verso forme di impiego non-standard e a maggior rischio povertà: gli zero hour contracts in Gran Bretagna, il lavoro a tempo determinato in Francia, i mini jobs e i teilzeit in Germania.

L’espansione delle fasce precarie dell’occupazione mostra il consolidarsi di una tendenza europea le cui caratteristiche sono la riduzione delle protezioni per i lavoratori e forme sempre più estese di sotto-occupazione. In questo quadro, la componente migrante si inserisce in determinati segmenti della produzione spesso concentrate nella sempre più larga area secondaria e meno protetta del mercato del lavoro. Tuttavia, il processo non è così lineare, anzi, si può assumere come le figure più emblematiche della mobilità del lavoro contemporaneo siano il trader e la lavoratrice dei servizi di cura e assistenza. Un esempio che spiega bene l’eterogeneità odierna del lavoro migrante, nel quale è in atto un’accesa polarizzazione della domanda di lavoro tra personale altamente qualificate con alti salari e lavoratori dequalificati nei servizi a basso costo.

L’inserimento lavorativo degli italiani in Germania può essere considerato paradigmatico per comprendere le migrazioni interne all’Ue, in particolare per svelare quei meccanismi di stratificazione che vanno oltre la dicotomia Est-Ovest e si diffondono tra i migranti della stessa nazionalità. Il dibattito scientifico sulle migrazioni italiane finora ha visto prevalere l’approccio cosiddetto del brain drain, che nella sua definizione più ristretta riguarda in special modo la componente accademica e i ricercatori, che in una classificazione più ampia comprende fino a otto diversi lavori.

Gli studiosi che sostengono questa interpretazione colgono un aspetto significativo delle nuove migrazioni dall’Italia: la rapida crescita del peso dei laureati sulla composizione dei migranti: nel 2002 erano l’11%, nel 2015 il 30%. Tale approccio, però, ha un limite significativo, in quanto la gran parte delle migrazioni dall’Italia ha al suo interno anche una corposa componente non laureata che sfugge completamente dalle analisi di questi studiosi. La verità è che i trasferimenti non sono riducibili a poche fasce della popolazione, ma per numeri e ampiezza si tratta di un movimento di massa variegato per luoghi di origine e trasversale per appartenenza sociale.

In questo quadro, il caso degli italiani in Germania mostra chiaramente l’eterogeneità della loro situazione: dal 2009 al 2015 i cittadini italiani impegnati in attività con assicurazione sociale obbligatoria sono aumentati di 53 mila unità. Le esperienze lavorative dei migranti italiani riflettono la dualizzazione del mercato del lavoro tedesco: da una parte vi sono le persone altamente qualificate con impieghi stabili e ben pagati, dall’altra le persone che vivono una condizione più precaria.

Antonio Sanguinetti è dottore di ricerca in Sociologia e Scienze sociali applicate