Nell’ultimo trentennio la quota di reddito nazionale andata ai salari si è ridotta in maniera generalizzata in tutti i Paesi dell’area Ocse, ma è soprattutto dal Duemila che tale riduzione si è fatta più decisa. Le cause di questa dinamica sono da qualche tempo all’attenzione degli economisti. In un recente lavoro un gruppo di autorevoli economisti (Autor, Katz, Dorn, Patterson e Van Reenen), ha avanzato l’ipotesi che alla radice di questa tendenza vi sia la crescente concentrazione di mercato e l’affermarsi in un gran numero di settori economici di quelle che si possono considerare imprese superstar, cioè imprese caratterizzate da mercati di sbocco sterminati, bassi costi del lavoro e capacità di introdurre innovazioni in modo continuo.

Imprese che – grazie anche alle nuove tecnologie e ai nuovi assetti istituzionali – riescono a sbaragliare la concorrenza nei loro mercati e a concentrare nelle loro mani quote di mercato enormemente più elevate di quanto si verificasse in passato. Siamo, cioè, di fronte alla situazione in cui, secondo la locuzione inglese, “the winner takes it all”. I nomi più noti sono, ovviamente, quelli di Google, Facebook, Amazon, Uber, e altri ancora. Gli studiosi osservano che la caduta della quota di reddito che va al lavoro finora non è stata messa in relazione con la crescente concentrazione nei mercati, per cui, senza entrare nel merito dei fattori che determinano questi assetti, sarebbe importante verificare – con riferimento agli Stati Uniti – se il primo fenomeno possa essere considerato una conseguenza, particolarmente fastidiosa, del secondo.

La quota del lavoro viene di norma calcolata come il totale dei salari pagati sul valore aggiunto o sul reddito prodotto; tuttavia, poiché gli autori del paper usano dati a livello di impresa, per carenza di informazioni sul valore aggiunto, sono costretti a misurarla come rapporto tra retribuzioni e vendite totali. Anche se misurata in questo modo, la quota del lavoro, che fino agli anni Duemila aveva seguito andamenti diversi nei vari settori, nell’ultimo decennio appare in netta flessione in ogni settore produttivo, con l’eccezione della finanza, dove è probabile che la quota dei salari sia cresciuta grazie ai lauti compensi e alle alte remunerazioni dei top manager del settore. È da notare la precipitosa e continua caduta della quota del lavoro nel settore manifatturiero.

Di converso, la concentrazione di mercato, definita in termini della quota di vendite delle imprese più grandi nel settore è in netta, quasi irresistibile ascesa in tutti i comparti dell’economia americana a partire dagli anni novanta. Tale andamento emerge con chiarezza sia che si faccia riferimento alle 4 che alle 20 imprese più grandi del settore. Si noti però che tale processo non è altrettanto marcato quando la concentrazione è riferita, anziché alle vendite all’occupazione, ovvero alla quota di occupati delle 4 o 20 imprese più grandi.

Dunque, poche imprese, le cosiddette imprese superstar, concentrano nelle loro mani un potere di mercato sempre maggiore, ma queste stesse imprese non espandono l’occupazione e i salari in modo corrispondente. Sulla base di questa evidenza gli autori del paper formulano l’ipotesi della “scala senza massa” (scale without mass), ovvero della possibilità che tali imprese non abbiano bisogno di aumentare gli occupati (o meglio il loro monte salari) per espandere la propria offerta e sbaragliare le imprese concorrenti nei mercati di riferimento.

Gli autori provano, quindi, a verificare empiricamente la relazione tra i due fenomeni. Dall’analisi econometrica emerge che la quota di lavoro si è ridotta proprio nei settori dove la concentrazione è aumentata. Più precisamente, l’analisi mostra come l’effetto delle imprese superstar si sia accentuato nel corso del tempo, al punto che l’aumento della concentrazione nel quinquennio 2007-2012 spiega fino al 30% della riduzione della quota del lavoro nella manifattura, il settore la cui quota lavoro è stata più falcidiata.

Il passo successivo dell’analisi consiste nel verificare se la caduta della quota del lavoro sia l’esito di un processo di ristrutturazione all’interno delle imprese o, invece, scaturisca da una ricollocazione dei fattori produttivi tra le aziende. Questa analisi viene condotta scomponendo la quota del lavoro nella componente between, cioè tra le imprese, e within, cioè all’interno delle aziende. In breve, gli autori si chiedono se la quota del lavoro cada perché cambiano le politiche salariali delle imprese (effetto within), oppure perché le imprese che hanno un monte salari più basso sul totale delle loro vendite sono quelle che più si espandono e conquistano quote sempre maggiori di ricavi (effetto between).

I risultati mostrano che la caduta della quota del lavoro è dovuta soprattutto alla componente between, coerentemente con l’idea della “scala senza massa”; si rafforza così l’ipotesi che siano proprio le imprese con una bassa quota del lavoro ad accaparrarsi una quota sempre maggiore della domanda. Una tendenza simile viene rilevata dagli autori anche in numerosi Paesi europei, tra cui i più grandi (Germania, Francia, Italia, Polonia ecc.): anche qui, infatti, la concentrazione di mercato gioca un ruolo rilevante nella riduzione della quota del lavoro in quasi tutti i settori economici.

Se questi sono i risultati dell’analisi empirica, le ragioni alla base dell’aumento della concentrazione di mercato restano abbastanza sullo sfondo. Gli autori richiamano due classiche spiegazioni, come la globalizzazione e il progresso tecnologico. A quest’ultimo riguardo, essi individuano una correlazione positiva tra i brevetti registrati, indicatori di sviluppo tecnologico e l’aumento della concentrazione a livello di settore. Non solo. Essi avanzano l’ipotesi che anche i differenziali di produttività tra le imprese di uno stesso settore si siano acuiti, per cui quelle che presentano un ritardo tecnologico faticano a stare al passo delle altre, aprendo la strada alla conquista del mercato da parte di pochi.

Sul fronte della globalizzazione viene documentata una correlazione tra l’aumento della concentrazione di mercato e l’esposizione alle importazioni cinesi, osservata a livello di comparto, sebbene non vengano analizzati i meccanismi per cui la maggiore esposizione alle importazioni debba condurre a una maggiore concentrazione. In sintesi, la tesi degli autori è che le imprese con costi più bassi, prodotti di migliore qualità o dotate delle ultime innovazioni vengono premiate dal mercato molto più che in passato. Nel processo di concentrazione in cui poche imprese in ciascun settore si spartiscono il mercato a rimetterci è il lavoro, che vede la sua quota sulle vendite o sul valore aggiunto assottigliarsi.

Assetti di mercato e nuove tecnologie che generano processi di rapida concentrazione di mercato, come non si erano mai visti nella storia economica recente, producono quindi un indebolimento del lavoro e della sua remunerazione. Gli autori non discutono se la politica possa intervenire in questo processo, e a che livello di governo, ma la questione è di grandissima rilevanza vista la palese sudditanza che la politica nazionale nei Paesi avanzati ha, in generale, mostrato finora nei confronti delle imprese superstar.

Stefano Filauro è dottorando in Economia politica presso l’Università di Roma La Sapienza