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In gioco c'è tutto il made in Italy. La crisi continua a non fare sconti a nessuno e colpisce un settore dopo l'altro. Quando chiude o riduce drasticamente la produzione uno stabilimento, a uscire dal mercato è anche il suo prodotto, e così nel nostro paese rischiano di scomparire intere filiere, come quella dell'alluminio in Sardegna (Alcoa, Eurallumina) o quella dell'acciaio (ThyssenKrupp, Lucchini, Ilva), con il conseguente aumento delle importazioni, e quindi della dipendenza dall'estero della nostra economia. È l'allarme ribadito in un report pubblicato dalla Cgil alla vigilia della manifestazione nazionale di sabato 20 ottobre in piazza San Giovanni a Roma "Il lavoro prima di tutto".
Il dossier della confederazione evidenzia i rischi nel tessile e nell'industria del bianco (Merloni, Indesit), nella ceramica (Ginori), nell'alimentare e nel mobile imbottito, che dieci anni fa copriva il 16% dell'intera produzione mondiale mentre oggi registra una mortalità delle attività produttive pari all'80%. E se è vero che l'industria italiana si è dimostrata meno sofferente sotto il punto di vista dell'export, passando dal 61,4% del 2000 al 55,6% del 2011, a subire enormemente la crisi sono le aziende che si rivolgono esclusivamente o quasi al mercato interno.
Il quadro per l'industria è drammatico: i primi sentori della crisi il nostro paese li ha avvertiti nel 2008, quando ha registrato un calo dell'attività industriale del 22,1% (aprile 2008 marzo 2009) e da allora, sostanzialmente non si è più ripresa. A dimostrarlo, è la scomparsa, tra il 2009 e il 2011, di 30.000 imprese. A questa sofferenza si sommano le richieste di ore di cassa integrazione, circa un miliardo all'anno per 500mila lavoratori, che, è importante sottolinearlo, incidono negativamente sulla produttività oraria, che viene invece solitamente calcolata sul numero complessivo della forza lavoro.
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