PHOTO
La scheda è arancione, quella del referendum n. 2 sulle piccole imprese. Quando andremo a votare l’8 e 9 giugno troveremo scritto nel titolo “Licenziamenti e relativa indennità: abrogazione parziale”. E, sotto, il quesito “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 recante Norme sui licenziamenti individuali” eccetera eccetera?
Anche in questo caso la domanda sembra complicata ma chiede una cosa semplice: cancellare il limite massimo di 6 mensilità di indennizzo che è previsto dalla norma in caso di licenziamento da un’azienda piccola, cioè fino a 15 dipendenti. Non il limite minimo, che rimane di 2,5 mensilità, bensì il massimo.
Anche per questo quesito i detrattori si sono sbizzarriti con critiche e notizie false e tendenziose. Vediamo quali.
È una soluzione incompleta
È falso. Oggi succede questo: se lavori per un’azienda di piccole dimensioni e vieni licenziato per qualsiasi motivo e impugni il licenziamento e vai dal giudice, quest’ultimo può riconoscerti la riassunzione oppure un risarcimento. Se il datore sceglie il risarcimento, questo può essere al massimo pari a sei mensilità. Pochi, troppo pochi, perché questo limite non tiene conto del danno economico e personale grave. Pochi, se paragonati a quelli che può ottenere un dipendente di un’impresa più grande.
In pratica, ci sarebbe una grande disparità di trattamento. Con la cancellazione della norma il dipendente della piccola impresa non sarà coperto dall’articolo 18, ma avrà maggiori tutele, perché togliere il tetto massimo imposto al giudice riporterebbe un equilibrio.
Non garantisce importi superiori
È fuorviante. Cancellare il limite delle 6 mensilità non garantisce indennizzi superiori, certo, ma li consente. L’obiettivo è offrire al giudice la possibilità di riconoscere risarcimenti maggiori di quelli attuali, anche molto consistenti a fronte di situazioni particolari, come nel caso di lavoratori con lunghe anzianità di servizio o con importanti carichi di famiglia, anche in relazione al comportamento del datore di lavoro e soprattutto alla capacità economica dell’impresa.
Rischia di mandare in bancarotta le piccole aziende
Falsissimo. Per due motivi. Innanzitutto i giudici decidono gli indennizzi sulla base di una serie di fattori, non ultimo la consistenza dell’impresa, considerando parametri economico-finanziari, quali il fatturato, il totale di bilancio, lo stato patrimoniale, il ricavo netto. Dai più recenti dati Istat si evince che le realtà produttive fino ai nove addetti rappresentino più del 90 per cento delle imprese e occupino poco meno della metà della forza lavoro. Ma i giudici non si prendono la responsabilità di fare fallire un’impresa a seguito di un licenziamento impugnato e della vertenza di un lavoratore.
Inoltre molte piccole aziende hanno fatturati milionari e una forza economica gigantesca, anche se hanno a libro paga pochissimi dipendenti. Soprattutto quelle che operano nel settore dell’hi tech. Perciò piccolo non equivale necessariamente a economicamente fragile.
Servirebbe una riforma
È vero, servirebbe, sarebbe necessaria e urgente. Ma la risposta a questa critica è semplice: una riforma con questo governo? Da un esecutivo che ha praticamente eliminato il dialogo con le parti sociali, che tira dritto per la sua strada senza ascoltare niente e nessuno, ci si può aspettare una riforma? Quindi la risposta è: un referendum abrogativo, che dica con chiarezza sì, vogliamo abrogare una norma che penalizza i lavoratori.