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“Partorirai con dolore” è la punizione che il Creatore infligge a Eva che disubbidì mangiando e offrendo ad Adamo la mela dell’albero della conoscenza (Genesi 3:16). Ma sembra anche essere il tratto distintivo delle politiche del primo governo guidato da una donna rispetto alla salute riproduttiva e all’autodeterminazione delle donne.
Non solo partorire deve essere fatto con dolore, ma ancor più quelle che decidessero di interrompere una gravidanza devono farlo nella maniera più difficile emotivamente e anche fisicamente. Ma le donne non ci stanno. La Cgil e la Uil hanno deciso di partecipare alla campagna promossa dall’Associazione Luca Coscioni per sollecitare le Regioni a rendere disponibile l’Interruzione volontaria di gravidanza per via farmacologica. In realtà avrebbero già dovuto farlo da tempo visto che dal 2020 le linee guida ministeriali lo prevedono, ma tant’è.
Una libertà troppo spesso messa in discussione
È dal 1978 che in Italia è stata introdotta per legge l’interruzione volontaria di gravidanza. Mai legge fu più violata della 194. Per non darle attuazione basta ridurre il numero dei consultori sul territorio: dovrebbero essere 1 ogni 20mila cittadini e cittadine, quando va bene sono 1 ogni 32mila.
O ancora, basta riempire gli ospedali di medici o personale infermieristico obiettore: in Italia gli obiettori di coscienza, secondo i dati diffusi dal ministero della Salute, sono il 63,4 per cento dei ginecologi e il 40,5 per cento degli anestesisti, cui si aggiunge il 32,8 per cento del personale non medico.
Il sabotaggio della RU 486
In Italia, si legge nella Relazione del 2020, solo nel 42 per cento dei casi l’Ivg è avvenuta per via farmacologia, nonostante il monito dell’Organizzazione mondiale della sanità che si dice “preoccupata che il diritto delle donne di accedere a servizi di aborto sicuro, anche attraverso l’uso di medicinali per l'aborto farmacologico, sia limitato da legislatori e tribunali”, perché "le donne dovrebbero sempre avere il diritto di scegliere quando si tratta del proprio corpo e della loro salute”.
La sicurezza delle donne si garantisce anche evitando di sottoporle a un intervento chirurgico e a un’anestesia. Si garantisce evitando politiche punitive e lesive della libertà femminile. La verità è che da quando a Palazzo Chigi siede una donna l’uso della RU486 è surrettiziamente ostacolato dal centro-destra sia a livello nazionale sia nelle Regioni.
Un po’ di numeri
Attualmente i costi dell’Ivg chirurgiche, ossia quelle fatte in sala operatoria da ginecologi, anestesisti e personale sanitario, quelle che fanno soffrire le donne fisicamente e psicologicamente, sono pari a 1.099 euro con ricovero diurno o day hospital.
I costi per la somministrazione di farmaci per l’interruzione di gravidanza, invece, sono di 418 euro in struttura sanitaria autorizzata, con ricovero diurno, un secondo accesso per la somministrazione del secondo farmaco e un terzo accesso per la somministrazione e la valutazione della concentrazione ormonale.
O anche di 72,30 euro con la somministrazione esclusivamente ambulatoriale del farmaco ormonale RU486, con osservazione e consegna del secondo farmaco per l’autosomministrazione a domicilio. La domanda sorge spontanea: perché disincentivare le pratiche che costano meno al Servizio sanitario nazionale e quindi alla collettività? La risposta rimane sospesa nel vento.
Le donne non ci stanno
“Da anni assistiamo in Italia e nel mondo al crescente tentativo di limitare l’autodeterminazione delle donne, che vengono trattate come soggetti incapaci o inadeguati ad assumere decisioni autonome”, osserva Esmeralda Rizzi (Politiche di genere Cgil nazionale).
“Penso, ad esempio, alle cosiddette ‘stanze dell’ascolto’ che si prefiggono di far cambiare idea alle donne, colpevolizzandole”, prosegue Rizzi: “Oppure al come interromperla, se farmacologicamente o meno. Infine, anche dove, se tra le pareti amiche di casa propria o in ospedale o in ambulatorio, dove la cronaca ci restituisce spesso racconti di donne in attesa dell’Ivg fatte attendere accanto a donne incinte o lasciate senza assistenza e analgesici al momento del bisogno. Per questo crediamo che sia necessario sostenere la campagna dell’Associazione Coscioni”.
Un diritto negato: è quello di non subire un vero e proprio intervento chirurgico. Nel 2020 l’allora ministro della Salute Roberto Speranza emanò le linee guida che prevedono che l’aborto farmacologico può essere eseguito in ambulatorio o in consultorio, con la possibilità di assumere la seconda compressa in casa propria. Peccato che a distanza di cinque anni solo due Regioni, il Lazio e l’Emilia Romagna, abbiano dato attuazione a quelle linee guida. E le altre?
La campagna “Aborto senza ricovero”
La campagna promossa dall’Associazione Coscioni si intitola “Aborto senza ricovero” e, attraverso una raccolta di firme su base regionale e online, ha l’obiettivo d’intervenire direttamente sui consigli regionali invitandoli ad approvare procedure chiare, definite e uniformi per l’aborto farmacologico in regime ambulatoriale, garantendo a tutte le donne la possibilità di scegliere e autodeterminarsi. La Cgil e la Uil, lo ripetiamo, hanno deciso di sostenere la campagna partecipando attivamente alla raccolta delle firme.
Le ragioni dell’adesione
“Come dice la Relazione ministeriale sulla 194, l’Ivg farmacologica è più sicura e ha meno rischi per le donne delle Ivg chirurgiche, oltre ad avere costi nettamente inferiori”, spiega Gabriella Semeraro (responsabile Medicina di genere Cgil nazionale): “Due motivi di grande importanza per sostenere la campagna dell’Associazione Coscioni che chiede il rispetto delle linee guida del 2020, del principio di appropriatezza delle prestazioni e soprattutto della volontà delle donne”.