Con l’articolo 27 del Decreto Legge 83/12, convertito nella Legge 134/12, e il Dm attuativo del 31/01/2013 la normativa sugli interventi di reindustrializzazione di aree o distretti in grave crisi economica è totalmente riorganizzata. Vengono istituite le aree di crisi industriali complesse e definita una procedura che vorrebbe garantire efficacia e tempestività dei programmi di riconversione e riqualificazione industriale.

Le aree Cic vengono così tipizzate: “Sono situazioni di crisi industriale complessa, quelle che, a seguito di istanza di riconoscimento della regione interessata, riguardano specifici territori soggetti a recessione economica e perdita occupazionale di rilevanza nazionale derivante da una crisi di una o più imprese di grande o media dimensione con effetti sull'indotto; una grave crisi di uno specifico settore industriale con elevata specializzazione nel territorio”.

I programmi di riconversione e riqualificazione devono, in buona sostanza, agevolare gli investimenti, la riconversione industriale e la riqualificazione economico produttiva dei territori interessati, individuando sia gli ambiti di intervento che gli strumenti attivabili per la loro realizzazione, a cominciare dall’utilizzo prioritario delle agevolazioni previste dalla Legge 181/89.

Ad otto anni dall’avvio di questa riorganizzazione, le Aree Cic localizzate in quattordici regioni sono: Val Vibrata (Abruzzo) insieme a Valle del Tronto- Piceno (Marche); Acerra-Marcianise-Airola, Torre Annunziata-Castellammare e Battipaglia-Solofra (Campania); Trieste (FVG); Frosinone e Rieti (Lazio); Savona (Liguria); Campochiaro, Bojano, Venafro (Molise); Torino (Piemonte); Taranto (Puglia); Porto Torres e Portovesme (Sardegna); Gela e Termini Imerese (Sicilia); Livorno e Piombino (Toscana); Terni- Narni (Umbria); Venezia (Veneto).

La maggior parte di esse sono anche altamente contaminate dal punto di visto ambientale, molte si trovano complessivamente o in parte all'interno di siti di interesse nazionale (Sin) o regionale (Sir).

I siti di interesse nazionale, ai fini della bonifica, sono spesso caratterizzati dalla presenza di discariche, impianti chimici e siderurgici, amianto, centrali elettriche, aree portuali, petrolchimici e raffinerie. Gli impatti sulla salute delle persone che vivono e lavorano nelle aree dei Sin sono riscontrabili nel V rapporto Sentieri (studio epidemiologico nazionale territori esposti a rischio di inquinamento) del marzo 2019, che ha analizzato 45 siti nel periodo 2006-2013, riscontrando eccessi di mortalità, patologie oncologiche, ospedalizzazione adulti, ricoveri ospedalieri nel primo anno di vita dei bambini e in età pediatrica, e in alcuni siti anche gli eccessi di malformazioni congenite.

Le criticità che emergono dalla gestione di questi anni sono molteplici e meriterebbero una seria riflessione.

Dal punto di vista di una organizzazione sociale, il primo aspetto che si intende sollevare è l’assenza di qualsivoglia azione di partenariato tra i soggetti istituzionali ed economici, da un lato, e quelli sociali dall’altro, lungo tutto il processo di elaborazione e realizzazione dei Prri. E’ un’assenza rivelatrice un’idea dello sviluppo in cui alle forze economiche stricto sensu spetta un ruolo esclusivo nella determinazione delle scelte da compiere. Che pone in conflitto, invece di ricomporre, gli interessi della produzione con quelli dell’ambiente; le esigenze dell’investimento con il modello di governance.

Anche le bonifiche hanno un andamento estremamente lento, quando non sono ferme, benché siano trascorsi venti anni dalle prime perimetrazioni dei Sin. Le principali criticità riguardano la difficoltà di ricondurre la responsabilità della contaminazione, problemi di tipo normativo, burocrazia e inefficienze amministrative, tempi lunghi di approvazione delle procedure di bonifica, problemi legati alla qualità della progettazione, difficoltà di individuare soluzioni tecniche per problematiche complesse, che si rivelino sostenibili dal punto di vista ambientale e fattibili dal punto di vista economico e sociale. In caso di inerzia dei presunti responsabili dell'inquinamento, la norma prevede l'intervento sostitutivo del pubblico, con diritto di rivalsa, ma per realizzare gli interventi serve un'adeguata dotazione finanziaria pubblica, al momento assente. Non esiste, infine, un settore industriale delle bonifiche perché non sono stati fatti investimenti in ricerca e innovazione tecnologica per cui spesso gli interventi di bonifica si riducono alla rimozione di terre e alla costruzione di pozzi, barriere idrauliche e muri di contenimento.

Sarebbe fuorviante affrontare questo livello di complessità del problema proponendo illusorie scorciatoie “commissariali” sul piano della gestione (come da più parti e da tempo si propone). Paradossalmente, ritardi, farraginosità, inefficienze sono il frutto avvelenato di un modello concepito e gestito in modo burocratico-centralistico, impermeabile alle variazioni economiche e alle esigenze sociali, incapace di connettere dimensione territoriale e settoriale in assenza di una “dimensione politica” che le tenga insieme.

Sembra evidente, per lo stato in cui versano le aree Cic, che sino a oggi le politiche dei diversi governi non fossero dirette a uno sviluppo sostenibile e a una idea compiuta di riconversione, riqualificazione o rigenerazione di insediamenti industriali, città, porti, terreni ricompresi in queste vaste porzioni di Paese.

Ci si è limitati a “guardare” e, in alcuni casi, a intervenire sullo stato delle imprese presenti in quelle realtà, senza un dialogo serio con le realtà territoriali, senza un’analisi seria sulla vocazione di quei territori e di quegli insediamenti.

Da qui la scelta della Cgil, assieme alla Fondazione Di Vittorio, di avviare una indagine, attraverso la somministrazione di un questionario alle proprie strutture territoriali e di categoria interessate dalle Aree di Cic.

Il presupposto è quello di approfondire ulteriormente le condizioni delle crisi (occupazione, ammortizzatori sociali, stato dell’attività delle imprese), ma anche quello di comprendere le condizioni ambientali, la percezione della popolazione locale e dei lavoratori, la vocazione di quei territori. L’esigenza è quella di comprendere, con un orecchio ai bisogni dei lavoratori, delle popolazioni e delle istituzioni locali coinvolti, quali siano le vie di uno sviluppo compatibile e sostenibile.

Le condizioni delle 16 aree sono diverse, per tale ragione è possibile che in alcune realtà si possa intraprendere una riconversione industriale green, mentre in altre sarebbe indispensabile riconvertire a culture agricole, piuttosto che a pascolo, o al turismo piuttosto che a parco naturale.

Questione qualificante è certamente lo stato delle infrastrutture materiali immateriali (logistica e connessione Fibra/5g), la presenza di hub tecnologici e poli universitari e di ricerca. In tal senso, va sottolineato che le Cic sono generalmente già dotate di infrastrutture, cosa che rappresenta un vantaggio in termini di oneri di urbanizzazione e un’opportunità per il reinsediamento produttivo.

Bonificare e rendere disponibili questi siti per nuovi insediamenti produttivi, in particolare per le aree dei gradi poli industriali del meridione, al centro del Mediterraneo, è un’occasione straordinaria di sviluppo per il Paese.

Infine è determinante la questione delle risorse. Perché le scelte diventano inefficaci se non si stanziano le risorse necessarie per la riconversione di quelle realtà e se quelle stanziate non vengono utilizzate in relazione tra loro.

La lentezza nella programmazione e nella realizzazione dei progetti è amplificata dalla mancanza di sinergie tra i diversi capitoli di finanziamento. Molte realtà sono oggetto di diversi provvedimenti economici, però dedicati a finalità distinte (Cic, Sin, Porti, Zes, Città metropolitane, Aree Interne...), anche se poi incidono sugli stessi luoghi, popolazioni, lavoratori. Questo evidenzia la mancanza di una visione politica e di un coordinamento anche nell’utilizzo delle risorse e all’efficacia del “progetto di sviluppo”.

L’esigenza, per la Cgil, è quella di riassumere in una discussione unica i diversi tavoli che interessano le stesse realtà territoriali, perché questo consentirebbe anche un migliore sostegno economico ai progetti e l’eliminazione di sprechi e dispersione di risorse. A questo fine potrebbe essere rivista la normativa prevista dall'art. 252-bis del D.L. 152/2006 relativa ai siti di preminente interesse pubblico per la riconversione industriale. Gli obiettivi sono quelli di rafforzare e rendere strutturali le sinergie fra i soggetti attuatori e i vari ministeri coinvolti, avere una governance integrata per la gestione delle diverse risorse e i diversi progetti che insistono su uno stesso territorio e quello di introdurre meccanismi di partecipazione, monitoraggio e controllo che, a partire dal coinvolgimento delle parti sociali, consentano una gestione condivisa e trasparente del processo di rindustrializzazione sostenibile delle aree di crisi e della loro bonifica.

Per la Cgil la riconversione ecologica, la riqualificazione industriale e il risanamento ambientale delle aree in grave crisi economica sono una priorità a cui vanno destinate adeguate risorse. Investire per realizzare questi interventi, infatti, è fondamentale per rilanciare il Paese verso un nuovo modello di sviluppo, creare nuova occupazione, tutelare l'ambiente e la salute. Altrettanta attenzione meritano le aree di crisi non complessa e la bonifica di tutti i Sin e Sir di cui è disseminata l'Italia. La legge di bilancio, piuttosto che le previsioni del Green New Deal o le risorse del Next Generation Ue e del Qfp, sono tutti capitoli di finanziamento che devono essere attivati per sbloccare finalmente anni di stallo.

Massimo Brancato è coordinatore dell’area Mezzogiorno, politiche dell’immigrazione, legalità, sicurezza e politiche giovanili della Cgil

Simona Fabiani è responsabile Ambiente e territorio Cgil

Alessio De Luca è responsabile Riconversione green e ricerca, coordinatore Idea Diffusa per Ufficio Lavoro 4.0 Cgil

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