Partiamo da quanto sanno ormai tutti coloro che si occupano di ricerca: nel nostro Paese se ne fa poca. In termini percentuali rispetto al Prodotto interno lordo siamo al 1,4%. Una cifra, per quanto in leggera crescita negli ultimi anni, rimane imparagonabile con quanto fatto dai nostri vicini Francia (2,2%) o Germania (3,4%). Ora però, come in molti altri campi, molti puntano tutte le loro speranze sul nuovo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) che, se approvato, permetterebbe di ricevere un importante supporto economico dall’Unione Europea.  In effetti l’Italia prevede di destinare parte di questi fondi a ricerca ed istruzione, aumentando quindi le risorse disponibili. Il punto che però va attentamente considerato è che il nostro Paese ha negli anni dimostrato di avere una particolare incapacità nello spendere i soldi che l’Europa mette a disposizione. Le criticità che ci rendono poco attrattivi dal punto di vista degli investimenti in ricerca vanno quindi ricercate in fattori strutturali che non riguardano solo la scarsità di fondi.

LE PAROLE CHIAVE
Per quanto riguarda il settore sanitario alcune di queste criticità potrebbero essere, utilizzando una serie di parole chiave, facilmente riassunte.

Competenza. Per quanto il governo di un progetto di ricerca nel settore biomedico sia diventato sempre più complesso e riguardi figure che vanno ben al di là della specifica competenza tecnico-scientifica, nel nostro paese continuiamo ad affidare tutti i ruoli in gioco al solo ricercatore. Quest’ultimo si alterna in tutte le funzioni che vanno dagli aspetti manageriali, legali, comunicativi e di relazione. È sempre lui che troviamo a discutere non solo del merito della ricerca specifica ma anche degli aspetti organizzativi, etici, quelli più tecnici sui dati ma anche di comunicazione dei risultati o di relazioni legate al trasferimento delle conoscenze. Tutto ciò come se fosse ancora possibile un approccio basato esclusivamente sul Principal Investigator. D’altro canto le università non danno alcun sostegno alla creazione di carriere dove l’obiettivo ultimo non sia quello di sfornare nuovi ricercatori ma anche manager della ricerca. Parallelamente, figure sempre più indispensabili per partecipare a ricerche complesse (analisti, regolatori, data manager, ecc.) trovano grandi difficoltà ad entrare nelle piante organiche dei settori pubblici della ricerca.

Organizzazione Un’istituzione di ricerca non è fatta quindi solo di ricercatori e soprattutto ha bisogno di entrare in relazione con un sistema organizzativo complesso. La ricerca ha bisogno di un sostegno che garantisca il supporto strutturale della propria organizzazione. Per fare un esempio pratico, l’impresa della ricerca non può reggersi con i soli progetti finanziati “a bandi” successivi. Soprattutto quando questi ultimi non garantiscono continuità. Il nostro Ministero della Salute non è in grado ad esempio di assicurare una pubblicazione annuale dei bandi per la ricerca finalizzata (il finanziamento che finanzia la ricerca all’interno del Servizio Sanitario Nazionale). Anche in questo senso non si tratta della scarsità di fondi ma di un mancato investimento nelle strutture centrali dedicate a sostenere la ricerca della sanità pubblica. Inoltre i diversi bandi pubblici si muovono in modo scoordinato tra loro con inutili sovrapposizioni e senza una programmazione strategica che investa sulle le aree su cui c’è un reale bisogno di produrre nuova conoscenza per la salute pubblica. 

Regole Nei diversi documenti che criticano il nostro sistema regolatorio a governo della ricerca sanitaria si fa spesso riferimento alla necessità di accelerare i tempi di approvazione e di controllo e al bisogno di introdurre una radicale semplificazione dei processi. In realtà in ambito sanitario più che sui tempi bisognerebbe forse lavorare sulla mancanza di formazione sugli aspetti regolatori e metodologici che ruotano intorno alle sperimentazioni cliniche. Nel nostro Paese i grandi istituti di ricerca lasciano, anche in questo caso, al ricercatore stesso l’onere di seguire gli aspetti di Good Clinical Practice che vengono letti come un inutile fardello burocratico piuttosto che come una garanzia della qualità del dato. La mancanza di un Osservatorio Nazionale sulle Sperimentazioni Cliniche, inteso come rete capace di gestire in modo critico le problematiche legate alla ricerca in sanità, e la frammentarietà con cui operano i diversi Comitati Etici impediscono al sistema di essere più moderno ed efficiente.

Relazione Pubblico/Privato In un Paese che fatica ad affrontare il tema del conflitto di interessi come uno dei tanti aspetti tecnici-organizzativi, resta difficile una programmazione sinergica degli investimenti pubblici con quelli privati. La recente pandemia ci sta insegnando quanto sia strategico utilizzare le risorse pubbliche per fare in modo che un’area di ricerca che storicamente ci vedeva protagonisti (quella della ricerca sui vaccini) non possa essere smantellata senza correre il rischio di creare pesanti dipendenze economico-industriali. Anche in questo caso più che di soldi si tratta di programmazione e dello studio di aree in cui forse il pubblico già investe molto (per esempio malattie rare) senza però metterlo a frutto nel lungo periodo. 

Trasferibilità tecnologica Molti dei risultati prodotti dalla ricerca effettuata nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale non riescono a tornare allo stesso SSN in termini di informazioni (dati pubblicati su riviste accessibili solo a pagamento) o di sfruttamento dell’innovazione (brevetti). Il problema principale risiede probabilmente nella mancanza di una logica di servizio in chi invece si applica per un generale produzione di conoscenza e riconoscimento accademico. Anche in questo caso la svolta strutturale comincia nella definizione di priorità su cui si vuole investire. In ambito sanitario tali priorità andrebbero definite sulla base dei reali bisogni di salute.

La lista delle parole chiave potrebbe sicuramente essere arricchita anche se un elemento appare ricorrente per il possibile successo del pnrr: la sola disponibilità di maggiori risorse non cambierà molto nell’attuale stato della ricerca sanitaria nel nostro Paese a meno di non approfittare di questa situazione per introdurre delle radicali riforme strutturali e organizzative nel settore.  

Antonio Addis fa parte del Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio, ASL Roma 1