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Era l’11 luglio del 1995. Era un martedì. Faceva caldo, forse non come oggi, ma si pensava al mare e alle vacanze. E nel frattempo, in un’afosa settimana d’estate, dopo tre lunghi giorni di assedio, i paramilitari serbi entravano nella città di Srebrenica. Sostenuti dall’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina e dal generale criminale di guerra Ratko Mladić,
compirono una sanguinaria operazione di pulizia etnica. Migliaia di musulmani vennero trucidati. Molti corpi, a trent’anni di distanza, sono ancora dispersi e i familiari non possono darsi pace neanche di piangerli. Quell’episodio, che solo nel 2007 sarebbe stato ufficialmente riconosciuto come genocidio dalla Corte Internazionale di Giustizia, risuona grave oggi, in un presente che sembra voler superare, in violenza e atrocità, una delle più efferate stragi della nostra storia recente.Gianluca Battistel, filosofo e giornalista, è autore di Una settimana di luglio, il romanzo-documentario che ripercorre i fatti reali attraverso personaggi di finzione, basati su testimonianze autentiche.
Battistel, quale molla l'ha spinta ad addentrarsi nel racconto e nella ricostruzione di questa storia?
Visitai la Bosnia per la prima volta nel 2017 e fin da subito nacque in me l’urgenza di raccontare quella storia. Dopo qualche anno maturò anche l’idea del romanzo, cui hanno contribuito diversi elementi. L’aver incontrato numerosi testimoni diretti di ciò che accadde a Srebrenica dall’aprile del ’92 al luglio del ’95 è stata sicuramente una motivazione decisiva, cui si aggiunse un’indignazione che non avevo mai provato prima. Infatti, ciò che avvenne a Srebrenica in quella settimana di luglio, avvenne letteralmente sotto gli occhi della comunità internazionale, inerte e per certi versi complice.
Nonostante, infatti, nel 1993 le Nazioni Unite avessero dichiarato Srebrenica “area protetta” sotto la tutela dei Caschi Blu, questo non bastò a proteggerla da quanto accaduto due anni dopo. Quali sono le responsabilità della comunità internazionale?
Enormi e indelebili. Già il 3 giugno ’95 le truppe di Ratko Mladić attaccarono uno dei check point dei Caschi Blu che delimitavano la zona protetta e demilitarizzata, istituita il 16 aprile 1993 con la risoluzione “Onu 819”. Il 6 luglio l’esercito serbo-bosniaco attaccò altri quattro check point e passarono ulteriori quattro giorni senza alcuna reazione significativa della comunità internazionale. Quando, alle prime ore dell’11 luglio, Mladić mise in movimento le sue truppe verso Srebrenica, era già pronta l’operazione “Blue Sword”, che prevedeva l’attacco di 70 caccia Nato sotto il comando Onu-Unprofor, ma la missione venne abortita. Poi c’era la famosa base Onu di Potočari, dove i Caschi Blu olandesi lasciarono entrare solo cinquemila, dei venticinquemila civili che si erano ammassati davanti al compound, per poi consegnare a Mladić pure quelli che si erano riparati all’interno della base. La selezione dei maschi di età superiore a 12 anni e le prime esecuzioni avvennero proprio davanti alla base, sotto gli occhi degli olandesi.
Tuttora assistiamo a conflitti e massacri che sembrano senza fine e a una comunità internazionale incapace di dare risposte. Cosa (non) abbiamo imparato dalla lezione di Srebrenica?
A Srebrenica il fallimento dei Caschi Blu e della comunità internazionale fu talmente catastrofico che di lì in avanti non avrebbero più avuto alcuna credibilità. Se abbiamo imparato qualcosa, è che il diritto internazionale è ormai completamente svuotato di senso e che sullo scacchiere mondiale vige esclusivamente la legge del più forte.
Ancora oggi, trent'anni dopo, le famiglie delle vittime continuano a cercare e seppellire i resti di oltre 8.000 uomini e ragazzi assassinati. Com'è possibile?
Questo purtroppo è un dettaglio particolarmente atroce. Infatti, gran parte delle 8372 vittime del genocidio di Srebrenica venne sepolta in fosse comuni. Tuttavia, poco meno di tre mesi dopo, i responsabili del massacro fecero riscavare le fosse con le ruspe per distribuire i resti delle vittime in fosse comuni più piccole, cosiddette secondarie, a decine di chilometri di distanza, nel tentativo di cancellare le tracce del loro crimine. Purtroppo non tutte sono ancora state ritrovate.
In “Una settimana di luglio”, la narrazione si costruisce grazie a un impianto di romanzo che si intreccia con i fatti reali. Come ha lavorato alla ricostruzione storica, con chi ha parlato e quanto tempo le ci è voluto?
Ho avuto il privilegio di visitare quei luoghi con un grande conoscitore di quel capitolo di storia balcanica e il suo aiuto è stato determinante nella mia ricostruzione storica dei fatti, cui credo di aver dedicato il massimo scrupolo. Mi ci sono voluti circa due anni, preceduti da sei viaggi studio sul luogo.
Nei suoi viaggi e nei suoi incontri, cosa le è rimasto particolarmente impresso?
Ci sono diversi incontri che mi hanno colpito molto, ma se devo sceglierne uno, scelgo quello con Hasan Nuhanović, che lavorava come traduttore per i Caschi Blu olandesi nella base Onu di Potočari e che negli eventi di quei giorni perse il fratello ed entrambi i genitori.
Cosa le ha lasciato, dentro, questa storia conosciuta da vicino e toccata con mano?
Un dolore irrisolto. Un’infinita gratitudine per aver incontrato quelle persone. E una repulsione ancora più profonda verso qualsiasi forma di nazionalismo.
Quel pezzo di mondo porta ancora oggi i segni della carneficina che lo ha ridotto a brandelli. Come si confrontano le giovani generazioni con la cultura dell'odio e della divisione ereditata dai propri padri?
Ci sono sicuramente tentativi quantomeno per iniziare un’elaborazione storica condivisa, ma per quello che ho potuto vedere sono gruppi minoritari. A prevalere sono tuttora le narrative dei nazionalismi contrapposti, purtroppo ancora largamente dominanti.