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Il sistema moda è sempre pronto a parlare d’arte, di tradizione, di “eccellenza italiana”. Poi ti giri e scopri che l’eccellenza vale 2 euro e 75 l’ora, tra turni infiniti e laboratori nascosti. Succede anche alla Tod’s, dove il marchio luccica più delle mani che lo rendono possibile. È un’eleganza che odora di colla e fatica, profumata per convenienza e ben stirata sul dolore.
Il genio del male è tutto politico: cancellare la responsabilità dei committenti, così che chi ordina mille borse possa dormire tranquillo anche se mille schiene restano piegate. Il governo si è fatto stilista del caporalato. Taglia, cuce e rifinisce la legge a misura di privilegio. L’artigianato legislativo lavora al contrario: protegge i forti, lucida l’ingiustizia e la chiama competitività.
L’industria applaude, i manager sospirano di sollievo e intanto gli operai spariscono come cuciture interne, indispensabili ma da non vedere. Si scrive filiera, ma si legge catena. D’oro per chi ordina, di ferro per chi subisce. Le passerelle scintillano, però dietro il velluto si muovono ombre stanche, mani screpolate e diritti scomparsi.
C’è chi chiama tutto questo “libertà d’impresa”. Certo, la libertà di usare il talento altrui come materiale di consumo. È la moda della deregolazione, dove la morale è fuori collezione e la dignità non trova sponsor. L’importante è che la luce dei riflettori copra ogni difetto di piega.
Così il Made in Italy diventa la divisa dell’indifferenza nazionale: elegante, costosa e macchiata. Si vende bene all’estero, finché nessuno guarda l’etichetta. Ma basta rovesciarla, per leggere l’unica verità cucita a sangue: “Lavare a mano, sfruttare a macchina”.






















