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“Stesso lavoro, stessa retribuzione” è un principio sancito dalla nostra Costituzione . È previsto anche dal codice delle Pari opportunità. Entrambi vietano la discriminazione di genere in materia retributiva per lavori uguali o di pari valore. Poi ci sono la carta fondamentale dei diritti della Ue e l’articolo 157 del trattato dell’Unione.
Ora manca all’appello la direttiva 970 approvata nell’aprile 2023 che va recepita nel nostro ordinamento entro giungo 2026: mira a rafforzare l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva.
Aziende contrarie
La strada verso la parità, però, non è così scontata. Innanzitutto perché il corrispettivo europeo della Confindustria, e cioè BusinessEurope, che conduce una feroce campagna contro il provvedimento, sta provando a depotenziarlo.
Il motivo? A detta dell’associazione datoriale, applicare questa direttiva significherebbe sostenere costi molto elevati. Sarebbe dispendioso non solo fare la rendicontazione sulla disparità salariale, obbligo previsto dalla norma, ma anche appianare le differenze, cioè equiparare le retribuzioni delle donne a quelle degli uomini, che poi è l’obiettivo della direttiva.
Nessun passo indietro
“Il rischio di indebolimento esiste – dichiara Esmeralda Rizzi, ufficio politiche di genere della Cgil nazionale –. Approvata nella scorsa legislatura, potrebbe essere modificata o ritrattata da un Consiglio a maggioranza di destra e da un Parlamento ancora più a destra, sebbene la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen abbia dichiarato che questo è uno di quei provvedimenti sui quali non ha intenzione di retrocedere. Giorni fa a Vienna con la Ces abbiamo messo in atto un sit-in per dire che non si può fare nessun passo indietro sulla direttiva”.
Obblighi per le imprese
La direttiva impone alle aziende di grandi dimensioni di stilare dei report sui salari dei propri dipendenti. Quelle con più di cento lavoratori dovranno riferire periodicamente (ogni anno o ogni tre) dati statistici sui divari retributivi tra uomini e donne. Per quelle con meno di cento non c’è nessun obbligo automatico, ma la direttiva lascia agli Stati membri la possibilità di estendere l’obbligo.
Se da queste comunicazioni emerge un differenziale maggiore o uguale al 5 per cento, l’azienda dovrà condurre una valutazione congiunta delle retribuzioni e adottare misure correttive con le rappresentanze sindacali o i lavoratori.
Tra i principali doveri dell’impresa, quelli di comunicare la retribuzione iniziale o la relativa fascia già nell’annuncio di lavoro o prima del colloquio, senza chiedere al candidato informazioni sulla retribuzione precedente, e di applicare criteri neutri sotto il profilo del genere per valutare lavori di pari valore, evitando discriminazioni indirette legate al genere.
Il dipendente avrà diritto a ottenere informazioni sui criteri utilizzati per la determinazione della retribuzione, degli avanzamenti di carriera e dei livelli salariali, potrà richiedere informazioni sul proprio stipendio e su quello medio, disaggregato per sesso, dei lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore.
E in Italia?
“La direttiva dovrà essere applicata al lavoro subordinato, pubblico e privato, a quello autonomo e alle collaborazioni – spiega Manola Cavallini, dell’area contrattazione, piccola e media impresa e cooperazione della Cgil nazionale –. Conosciamo la discrezionalità del datore nel privato già all’atto dell’assunzione: anche per questo la direttiva è importante. L’obiettivo è rafforzare meccanismi per garantire la parità di retribuzione tra uomini e donne attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione fin dall’assunzione. Percorso non semplice, se consideriamo che il divario retributivo non è nei contratti collettivi che, come sappiamo, non prevedono trattamenti retributivi differenti per genere”.
Parità sulla carta
Almeno sulla carta, infatti, a parità di livello e mansione la retribuzione è la stessa. Lo dice anche la legge che ci deve essere parità. Se si guarda alla base oraria, l’Italia sembra un Paese virtuosissimo. Ma se si analizzano i dati su base mensile o anche su base annuale, il gap supera il 20 per cento. Una differenza che si trasforma anche in un gap previdenziale: le pensionate donne sono più povere dei pensionati uomini.
I meccanismi che penalizzano sono altri: gli orari di lavoro, la discontinuità nella carriera, gli ad personam, i part-time involontari e non, i carichi familiari e di cura. In definitiva, la diseguaglianza salariale è molto connessa all’organizzazione del lavoro e della società.
“Almeno a parole sembra ci sia un impegno concreto del governo – prosegue Manola Cavallini –. Per la Cgil la 970 è una direttiva che si inserisce in quadro normativo che potrà essere solo migliorato e rafforzato. Nell’incontro avuto con il ministero del Lavoro questo è il primo elemento che abbiamo sottolineato: la trasposizione non dovrà peggiorare norme già esistenti. Qui non partiamo dall’Anno Zero. Per noi diventerà importante capire quali strumenti l’esecutivo metterà a disposizione delle parti sociali per definire i criteri e le linee guida che possano determinare un’effettiva condizione di parità per le lavoratrici”.